giovedì 24 marzo 2016

Anna Maria Bonfiglio


Anna Maria Bonfiglio porge al lettore i suoi versi in una lingua molto musicale, attenta e misurata, attenta a non andare mai sopra le righe e misurata, o attentamente ponderata nei significati che trasmette, nella ricerca di parole precise e restituite alla loro dignità di simbolo. La metrica è quella della prosodia classica, basata sull’endecasillabo, che viene curato nella sua gradevole musicalità. La raccolta Il miele amaro è dunque segnata da una scelta di semplicità e sapiente misura stilistica che denotano non soltanto un gusto raffinato nella scelta timbrica, ma anche uno studio attento e una costante lettura e frequentazione della poesia aliena da artifici letterari e incurante di qualsivoglia effetto speciale,quasi sussurrata nella sua ansia di equilibrio emotivo denso però di allusioni, e adatta a una riflessione esistenziale. Il lirismo si fa pensoso e raccolto, ma mai crepuscolare, disincantato ma mai cinico o ruvido, riflessivo ma mai cerebrale, per una buona e solida scrittura poetica che si legge con interesse e con soddisfazione.

                                                                                                          GIANMARIO LUCINI


LA CASA

Chissà chi verrà dopo di me
ad abitare queste stanze
chi si desterà all'occhio del sole
e s'addormenterà con lame
di luna disegnate sul letto.
Qualcuno girerà per la casa
dirà ch’è bella o brutta
ma non udrà le voci
rimaste appese sui muri,
non saprà che l'umido alle pareti
è il segno lasciato dal pianto
nei giorni dei tanti abbandoni.
Spazzerà via le sterili orme
di uno scialbo  passaggio
e caccerà le ombre
di un tempo che non gli appartiene.
Sarà utile allora
spogliarsi  per tempo di tutti gli addobbi
e lasciare che l'anima -nuda-
si volga all'Eterno.

                                               
L’APPARENZA

Non guardare di me l’occhio che ride
la voce fresca
o l’ilare bocca che adesca.
Nell’atlante che sfiori con le dita
non cercare le alture ardimentose
o le pianure erbose.
Esplora invece i fiumi azzurri
sotterranei che adornano
le mani, le logorate valli
i merletti dei tarli.
Quello che non appare
è l’ago che segna la scissione
fra il viaggio dell’andata e l’inversione.


SUGHERI                                                                        


Ritornano talora gli stessi desideri 
di quello che fu tempo di scontento.
Affiorano -sugheri  marci
lasciati a galleggiare
fra canti di sirene e naufragi.
Si tinge allora l’orizzonte
di antiche non sopite nostalgie
e  il tempo vecchio affonda negli abissi
col peso di remote fantasie.

(da Il miele amaro, Ed. CFR, 2013)


***


UN'ALTRA LUCE


La luce di un'altra estate illumina
quell'angolo dove i tuoi passi -padre-
erano il fumo della sigaretta
che tu rubavi al sorvegliato assillo.
Le nostre solitudini assediate
da quel dolore giunto ancora prima
che si verificasse la partenza.
E questo nodo che m' artiglia il petto
nel ricordo di quella sofferenza
che fui impaziente di veder cessare
è un'altra solitudine -più amara -
una catena d'infiniti anelli
da cui non salva nessun'amnistia.
Ora la stessa luce è un'altra luce
e un altro suono ha lo stesso riso
e niente è più perverso
di questa luce che avvelena gli occhi
di questo riso che arde nella gola.

                                                           

 ESCI DAL MORMORIO SEGRETO                                                          


Esci dal mormorio segreto di quest'ora
lasciando perle d'uomo
a navigare sopra l'ombelico
Sono nuvole d'aria le parole
silenziosa ricchezza
che resta tatuata sul cuscino
Nel lungo corridoio della sera
stazionano le ombre di noi due
strette nel cerchio chiuso dell'abbraccio
Sarà notte fra poco
e i nostri passi andranno ad altre vie
a raccontarsi la vita d' ogni giorno

(dalla raccolta Per tardivo prodigio, Ed. Thule, 2006)

***

EURIDICE


Allontana i tuoi passi dalla mia notte
non ti voltare se la mia voce ti chiama
e ti lusinga. Se mi guardi
è cenere il mio sangue
i miei piedi un blocco di cemento

Ho contato mille volte gli aironi
oltre la roccia scura
che mi bendava gli occhi
e ho cercato la luce nel ricordo
del canto che mi spezzava il cuore

Ma seppi troppo tardi che non fu amore
a spingerti nel fuoco del mio inferno
e questo andare avanti senza ali
questo precederti cieco nella solitudine
é la condanna che predissero gli aruspici
rivoltando viscere d'agnello
accanto alla mia culla

Il mio lamento é muto non pretende
 pietà né la dispensa
Dirotta la tua voce ad altri orecchi
Che mi si tolgano tutti e cinque i sensi
che mi si lasci errare per le vie del buio
prima di morire una volta ancora
nell'illusione di essere raggiunta.

(dalla raccolta Le voci e la memoria, Ed. Gabrieli, 2000)


***



L’INGANNO DEI PROFUMI


Non so per quale colpa
-ombra, spettro o filtro
d’atavici retaggi
ora sia qui
a compiere da sola
la lunga penitenza che mi assolve

(ditegli che ancora
maggio annega nella luce
ed irretisce gli occhi
col verde degli ulivi)

Cerchiamo di passare oltre i muri
oltre la gioia
ed oltre la stanchezza
ergiamo labirinti
dove ad aprile chiudere i roseti
per vivere l’inganno dei profumi

(ditegli che ancora
l’acqua muore nelle gore
e fra le canne scabre
il vento ha seminato
lucciole di ghiaccio)

Doveva crescere
quest’agonia di spighe
esplodere nel cielo
e ritornare seme di silenzio
per vivere nei passi della sera
il pianto di spada acuminata

(ditegli che l’aspetto dove
respirano la zagara e le rose)

Il male- s’è male
concedersi per poco all’utopia-
è forse nella vita
e non nell’illusione di domarla.

(dalla raccolta Nell’universo apocrifo del sogno, Ed.Il Vertice, 1986)


Anna Maria Bonfiglio, poetessa, scrittrice e giornalista pubblicista. Nata a Siculiana,  in provincia di Agrigento, risiede a Palermo dove svolge attività culturale nell’ambito letterario. Ha collaborato con i settimanali Bella del gruppo Rizzoli e Vera di GVE , con i mensili SiciliaTempo e Insicilia ,con la rivista Silarus e con molti altri periodici per i quali ha redatto recensioni e articoli.  E’ stata per alcuni anni presidente dell'Associazione Scrittori e Artisti e ha diretto il periodico Insieme nell'Arte e il giornale online Quattrocanti. Ha ricoperto per un anno la carica di presidente del gruppo Ottagono Letterario ed è stata componente permanente della giuria del Premio Nazionale Pietro Mignosi. Ha pubblicato parecchie raccolte di poesia, i romanzi brevi La verità nel cuore  e Scelta d'amore e i saggi: A cuore scalzo-La vita negata di Antonia Pozzi(CFR Edizioni), La vicenda di gioia e di dolore nell’opera di Camillo Sbarbaro(CFR edizioni)  e Maria Messina in Figure femminili del Novecento (Edizioni Ulite). Sue poesie e articoli di letteratura sono reperibili in vari siti web. Fra i premi e i riconoscimenti che le sono stati assegnati: Premio di Cultura “Città di Monreale”; Premio “Giacomo Giardina” alla carriera; Premio “Salvator Gotta” per trent’anni di attività letteraria; Premio Telamone 2014 “Per l’impegno nel campo letterario e culturale”.




lunedì 21 marzo 2016

Marcello Marciani


Marcello Marciani, nato e residente a Lanciano (Chieti), ha pubblicato: Silenzio e frenesia (Quaderni di “Rivista Abruzzese”, Lanciano 1974), L'aria al confino (Messapo, Siena-Roma 1983), Body movements, con traduzione inglese a fronte di Amelia Rosselli (Gradiva Publications, Stony Brook-New York 1988), Caccia alla lepre (Moby DicK, Faenza 1995), Per sensi e tempi (Book, Castelmaggiore 2003), Nel mare della stanza (LietoColle, Faloppio 2006), La corona dei mesi (LietoColle Faloppio 2012), Rasulanne (Cofine, Roma 2012). Suoi testi in dialetto frentano sono stati eseguiti negli spettacoli Mar'addó' (1998-1999) e Rasulanne (2008/ 2012), dove ha partecipato anche come attore. Dal 1988 al 2008 è stato segretario-organizzatore del Premo Nazionale di Poesia in Dialetto “Lanciano-Mario Sansone”. Ha ricevuto diversi premi, fra cui: Gabicce Mare, Matacotta, Nelle terre dei Pallavicino, Noventa. Pascutto, Pandolfo, Penne, Ischitella. È presente in riviste e antologie italiane e statunitensi con componimenti in italiano e in dialetto.  



     NOVEMBRE


     Cantano sventolando ai tetti i loro incerti futuri
     implorano ascolto e diritti da un parlamento di muli
     i ragazzi che sciamano su tegole piazze e striscioni
     senz'altra tinta e ragione di una gialla esasperazione
     che spacca a tratti la nebbia di questo impapparsi di leggi
     qua nel più cronico novembre che li accerchia e li taglieggia. 


     Che orgia di fiori e cartelle dona alle tombe novembre
     che sballo di voci e rimorsi affolla le ossa dei morti...
     è forse memoria in festa lo scrollo dal banco dei vivi
     forse è conforto quel resto dei gesti loro in noi passivi
     attori appesi ad un palco che inverte battute e rapporti...
     che forgia di foto e volti concorda più epoche e l'ombra.


     Il re vacilla eppur sbraita, i suoi vassalli lo cullano
     lo issano su una seggetta tutta di dita intrecciate.
     Si vota trippa per gatti al prossimo fiducionale
     si lustrano ottoni e complotti per il galà nazionale.
     Stende decenze novembre: scintilla in monnezze invetrate
     vende per nebbia il fumogeno, per stretta emergenza il suo nulla.



    (da La corona dei mesi, LietoColle, Faloppio, 2012)


DICEMBRE


Solo ieri è nato Īsā ma lo culla quel battello*
che lo esporta in rive d'Africa dove il mare dà farfalle.

Nato pur se non esiste per il foglio d'ordinanza
che i suoi babbo e mamma imballa sotto l'arco d'espellenza.

Tenerezza non sussiste per quel fantoccello moro
indecente tanfoloso sopra un seno che spaura.

Ha per occhi moregelse per bocchella un melograno
e sul vento del mar mezzo il suo viso fa altalena.

Fa tesselle d'antenati sfiora oasi e privazioni
la ventata delle ere sul suo viso allampa fiori.

La memoria sta nel latte che lui sugge a mozzafiato
quanta storia sta nel naso che s'incaccola al vagito.

Dove siete bravagente pare dica il suo rigurgito
che Natale vi ingollate mentre la mia terra insorge.

Se Natale è quella fiaba sopra un bimbo in paglia e muschio
il mio splende in questo gabbio lungo un mare che mi tresca.

Non sapete che il mio nome vuole dir per noi Signore
non capite che ogni nascita è un avvento e una pastura.





* Īsa è una delle versioni arabe del nome Gesù

(da La corona dei mesi, LietoColle, Faloppio 2012)
                                                                    




 FELICINO


Tradotta navetta settebello freccia
rossa ronzano in testa i treni che ho perso
da bardascione un po' scilito coi lecci
della costa ad ombreggiarmi amori avversi
coi vachi del rosario imbrigliati in treccia
tosta per flagellarmi quelle riverse
chiappe seminariste nel chiuso androne
di un semenzaio che smaniava in pulsioni.   

Padre Giustino padre Oreste e Dante
l'addetto al giardino e alle mie polluzioni
spicciate a tanfo di ascelle e diserbante
Pater Noster pappardellati in fiatoni
di chierici afasici o febbricitanti
e mio padre in acquavelva e linde azioni
che alle pie feste impicciottava saltuario
sbertucciando le piaghe del mio calvario. 

Prevetucce prevetèlle Felicino 
mi appellavano al paese nel breviario
dei ritorni presagendomi un destino:
nel diminutivo è tutto il mio scenario
di tragedie irrise in farse e cavatine
trillate svelte sul velo del sudario:
in minore sfumano toni e contorni
gli sbandori d'anima son capostorni.

Ho un setoso viso ad O d'arcaico putto.
Più che un viso è un piatto di sedati scorni
o meglio uno stemma di rimpianti asciutti.
Ai fedeli balbetto il fiato dei giorni
fra grazia e pena sniffate in usufrutto
da uno straccato Dio in ferie che ci storna.
Oh non dovrebbe un prete così parlare
se no mi si smorzano i ceri all'altare.


  
Domine obliviōse abscondite in coelo
Pater perterrite a meo disonorare
votum exsolvis in toto, sgarrami il velo
pietatis simulatae a meo svagare.
Ho un'anima parvula stretta nel telo
frustro d'una chiesascianna, fammi andare
de retro, a treni persi a navette a trecce
rosse d'un amore avverso...  oddio sì sfrecciami.


  
 (apparso su “GRADIVA- International Journal of Italian Poetry “, n.48, 30/10/2015)                                          
                              

 TESTIMONIANZE SU UN APPROCCIO NOTTURNO


1
Va già a catafascio il mondo è cosa nota
ma vederli là per terra come bestie
assatanate che si sgarrano a morsi
manco nell'horror della più sozza specie...
oddio questa città oramai sta in guerra
faccio bene a rimboccarmi nella tana
alla mia età che ci vuole a farmi secca
a scaricarmi quegli incubi la notte.

2
Stavo rincasando tardi l'altra notte
quando ho avvertito un sibilo sì una nota
lunga strusciata alla fontanella secca:
si leccavano come mansuete bestie
per condividere un incavo una tana
si stringevano giocando in lievi morsi
teneri a vedersi fuori dalla guerra
fra bande che sta sterminando la specie.

3
Sarà che è stramba e avariata questa specie
o è carica di torpori la mia notte
ma non so se era un incubo di guerra
o un crollo d'amore avverso quella nota
fonda, cullata in sibemolle di morsi:
due figure riemergevano alla secca
di un mare che li scacciava dalla tana
li trascicava uncinati come bestie.

4
Che più umano c'è che ritornare bestie
assaporar la ruspanza della specie:
squittisco in trance come topo nella tana
di un pensiero che mi rosica la notte...
l’amor non consumato è robiola secca
se in te t'avvolgi la fame attacca guerra...
dal mare arrivano zattere di morsi
per terra il fischio dei morti non si nota.

5
È nota l’avvedutezza delle bestie
quando con morsi difendono la specie
se fanno guerra stanno guardinghe in tana
prima di fare secca l’ultima notte.



(apparso su “BREVIARIO POETICO - Yale University – Centro Studi Sara Valesio -
n.15, dicembre 2015)




LA SPINAVENTÓSE *

                                                        Corre, corre, con la fame al ventre per motore 
                                                                                                            (Simone Weil)
                                                                                                              
'N tenghe sise 'n tenghe panze
'n tenghe n'ónte che me cole,
so' sardèlle so' lu truzze
de na melélle che vole,
so' la spina lešte e póngeche
šti madonne de la ggente,
so' na cocce ch'arevólle
nu pensére... che me 'nchióve.

‘N tenghe sanghe de lu mese
'n tenghe cule che fa mosse,
so' na citele che sfrìje
pelle e usse e ce fa pasque,
so' la lengue che s'allonghe
'mbusse e sicche e l'abberrùte
l'albaggìje di chištu monne
che cchiù è ciacce cchiù se 'nfógne.

'N tenghe a dice ca è lu monne
che me fa' sfilà' la fame
ma è na fame d'atru monne
che me fa accuscì: sciocale!*
È na mbolle nu varlése
che me coje 'n colle e štrille
a gne quanne fusse sale
sta vulìje che s'arizzìlle.

'N tenghe tempe: mo' so' vecchie?
‘N tenghe senne: so' quatrale?
‘N tenghe mamme: s'è štuccate
chela fune che scannave?

L'hann'assùtte o s'è 'nfrattate
pe' li sunne n'atru pozze?
'N tenghe vaςe: s'è seccate
la giunchìje de chela vocche?

'N tenghe sonne: nu pensére
me se 'nchiove e me fa notte:
i' mo’ campe o me so' morte?
Aah lu ceppe che se trézzeche
nche lu vente a la marine
campe d'arie e de perfume...
So' ssu ciùffele de ceppe
so' na fodere de lune.


LA SPINAVENTOSA
Non ho seni non ho pancia/ non ho un(a) (goccia di) unto che mi cola,/ son sardella sono il torsolo/ di una meletta che vola,/ son la spina lesta e pungo/ queste madonne della gente,/ sono una testa che ribolle/ un pensiero...  che mi inchioda.//  Non ho sangue del mese/ non ho culo che fa mosse,/ sono una bimba che frigge/ pelle e ossa e ci fa pasqua,/ son la lingua che si allunga/ bagnata e magra e l’avvolge/ la superbia di questo mondo/ che più è grasso più si infogna.// Non sto a dire che è il mondo/ che mi fa sfilar la fame/ ma è una fame d'altro mondo/ che mi fa così: speciale!/ È una bolla un garrese/ che mi incoglie addosso e strilla/ come quando fosse sale/ questa voglia che si ribella.// Non ho tempo: ora son vecchia?/ Non ho senno: son ragazzina?/ Non ho mamma: si è spezzata/ quella fune che scannava?/ L'hanno asciugato o si è infrattato/ per i sogni un altro pozzo?/ Non ho baci: si è seccata/ la giunchiglia di quella bocca?// Non ho sonno: un pensiero/ mi si inchioda e mi fa notte:/ io ora campo o sono morta?/ Aah il ceppo che si dondola/ con il vento alla marina/ campa d'aria e di profumi.../ Son codesto fischio di ceppo/ sono una fodera di luna.


*La spinaventóse indica la pianta del rovo e, per traslato e secondo un’accezione arcaica, una donna magra e ispida come una spina trasportata dal vento. In una dimensione attuale può alludere all’aspetto dell’anoressica e al suo “correre” nel vento, come suggerisce l’esergo. 

Sciocale è un termine gergale degli anni '60, che sta per “toco”, “figo”; in traduzione
diventa “speciale” per ragioni di rimandi sonori

(da RASULANNE, Cofine, Roma 2012)



LA NINNILLE (1)


Anema longhe, sbalanzate, cotte.
Purtegalle spartite a lésche e vocche.
Nu frécchiàle 'ncarnite è mo' štu gnòcchele.
Na portapïe di sanghe fa šta róse.

Tengh'a scuntà' la raje de li rattuse
che 'n-ce-arrìvene a 'ccìdele lu scorne
di šta varve che tòzzele ogne jorne
a šta zurle di sise che m'appìzzene.

Tengh'a pulì' na renecélla mé
che nisciune le pó' magnà' cchiù doce
pecché nisciune pó' sapé' la croce
che me tire, e scarpuréje, la pelle.

Ninnì vì' ecche! - facé' 'ntrà' 'Deline
la fattucchiare abball'a na desótte
di 'ncinse sfastugnate e ciacciarutte -
Vì' ca mo' t'arecàpe la pianéte!

Tu sî nu sgarbe sî na vernacòchele
nu pence štorte – mi dicé' – nu tòzzeche
pe' 'ntruvedà' la cocce scì na rizze
pe' 'bberrutà' mascule e femmene... ma

'nte penà', ca lu monne è maccarone:
prime va a 'bbettemà', dapó ti cerche
gne lu nocce adumbrose de na cerche.
Sî nu sonne de zucchere, de vrénne (2).

Nu scacchiate ere allore, ma lu mèrche
fattucchiare m'ha 'bbuttate a vetólle
m'ha sarchïate pe' ffa' scì Ninnille:
scherebbizze cilline e nuvelógne.

Facé' du' mazzecarìlle de pèrżeche
šte guancetèlle, spannè' foche e frescure
šta vocche che sucave la pavùre.
Chi me se svaçiucchié' vevé' nu chiove.

Veve la jeléne de nu tempe nove
che 'n-se fa specie se nu vaçe è 'mpise (3),
se 'nchiomme e va pe' sette paradise
ammeštecate a semule e cecagne.

Ma n'è ppe' tutte šti finezza mî.
La gnurantizie de lu monne è vrétte
e iér'a nnotte m'aje truvate 'm pette
séie calavùrze(4 ) nche la rużże all'ucchie.

Nche nu mumènte m'hann'apert'e cotte.
Uuuh i' 'nce števe cchiù, ere nu quarte
de vetelle smacenate, na carta
pecure pe' farse 'ncincianì'...

Anema scite, e longhe, addónna vî?
Pecché ne' le sbalènze mo' ssa croce
che ti štucche ti scarpuréje la voce?
Pecchè 'n-ce pruve a dirme de campà'?



                                                         

 LA NINNILLA
Anima tarda, scaraventata, cotta./ Arancio spartito a fette e bocche./ Un chiavistello incarnito è ora questo gnocco./ Una portapia di sangue fa questa rosa.// Sto scontando la rabbia degli allupati/ che non arrivano a ucciderlo lo scorno/ di questa barba che bussa ogni giorno/ a questa frenesia di tette che mi entrano.// Sto sbucciando un piccolo fico mio/ che nessuno può mangiarlo più dolce/ perché nessuno può sapere la croce/ che mi tira, e strappa, la pelle.// Piccino vieni qua! - faceva entrare (A)delina/ la fattucchiera giù in basso a un fondo/ di incensi nauseanti e ciarpame rotto -/ Vieni ché ora ti sbroglio il destino!// Tu sei uno sgarbo sei un'albicocca/ una tegola storta mi diceva - un veleno/ per intorbidire la testa sì una rete/ per avvolgere maschio e femmina... ma// non penarti, ché il mondo è tontolone:/ prima va a brontolare, poi ti cerca/ come il nocchio inquietante di una
quercia./ Sei un sogno di zucchero, di lentiggini.// Un ragazzetto ero allora, ma il marchio/ fattucchiero mi ha gonfiato a bolle/ mi ha sarchiato per far uscire Ninnilla:/ sghiribizzo vivace e annuvolato.// Facevano due mazzolini di pesche spiccaci/ queste guancette, spandeva fuoco e frescura/ questa bocca che succhiava la paura./ Chi mi sbaciucchiava beveva una sbornia.// Beve la brina di un mondo nuovo/ che non si stupisce se un bacio è bandito,/ si tracanna e va per sette paradisi/ mescolati a semole e sonnolenze.// Ma non sono per tutti queste finezze mie./ L'ignoranza del mondo è lurida/ e ieri notte mi son trovata di fronte/ sei delinquenti con la ruggine agli occhi.// In un momento mi hanno aperta e cotta./ Uuuh io non c'ero più, ero un quarto/ di vitello macinato, una carta/ pecora per farsi brancicare...// Anima uscita, e tarda, dove vai?/ Perché non la scaraventi ora questa croce/ che ti spezza ti strappa la voce?/ Perché non ci provi a dirmi di vivere?



     
      (1) Ninnille non è solo il bambino (o la bambina) ma pure il furbacchione matricolato;     
      (2) vrénne sta alla lettera per crusca, lenticchia, da cui “lentiggini”;
      (3)'mpise è propriamente l'appeso, l'impiccato e, in senso figurato, il “bandito”;
(4)  calavurze:calaborse”, borsaioli, quindi “delinquenti”.


(da RASULANNE, Cofine, Roma 2012)




sabato 19 marzo 2016

Nicola Romano




VORAGINI ED APPIGLI di Nicola Romano
Ed. Pungitopo, 2016
prefazione di Giorgio Linguaglossa

Quasi una sequenza epigrammatica questi brevi testi che compongono la plaquette “Voragini ed appigli” di Nicola Romano, tutti declinati in settenari, metro di rispettabile ascendenza se consideriamo che è stato usato non soltanto per testi di tradizione burlesca ma parimenti per componimenti come l’ode, la canzone, la ballata. Romano li adotta per sviluppare una tematica di carattere intimistico-riflessivo, quasi un colloquio con se stesso che gli consente di mettere a fuoco gli aspetti della realtà  che lo circonda, tanto in ambito sociale quanto nella sfera del privato. Ma quando torneremo/ al centro delle cose/ dentro quel solco antico/ che luce diede al mondo? recita accorato nello spaesamento di un contesto di parole gridate e di discorsi confusi e fuorvianti. E nella dimensione macrostorica in cui è immerso, il poeta si ritaglia la sua microstoria, camminando sulle parallele come saggio equilibrista. Una pensosità  quieta e consapevole lo accompagna al centro di quell’età  che non è più di facili incantamenti e non è ancora di resa senza resistenza: “Ma torneranno giubili/ e danze nei cortili/ per i giovani affranti/ se si reincarna il tempo/ (ma noi non ci saremo). Nella sua nota introduttiva Giorgio Linguaglossa sostiene che fra la poesia di Nicola Romano e la società  si è operato un divorzio storico. A mio avviso, più semplicemente, credo che fra il poeta e la società  la spaccatura non sarà  mai definitiva nella misura in cui egli continuerà  ad avvertirne le tensioni.                                                                                
                                                                                                                             
  (Anna Maria Bonfiglio)


Poesia che ha una straordinaria continuità di ritmo e di struttura e, contemporaneamente, una singolare varietà e ricchezza di situazioni, vicende, giudizi ora ironici, ora amari, ora commossi, di sentenze, di "trouvailles" improvvise, fascinose.                          
  (Giorgio Bàrberi Squarotti)

*
                                                                                               

In fin dei conti
so radunare al meglio le parole
traggo quelle che affiorano
dal caglio dei silenzi
ed ascolto fonèmi
rime dal mezzo e afèresi
solfeggio accenti e sillabe
d’un verso martelliano
ma… quando incombe l’ora
di quel prossimo mio
come me stesso
che con mani feroci
cava il bene dagli occhi
e tracotante spazza
l’integrità e la pace
si spappola il precordio
tracollo in un deliquio
e non ho più par…

*

 Percuotendo la pula
forse affiorano chicchi
di letizie perdute
o di lampi di gioia
convertiti sul viso
Ricerca senza limiti
è il destino dell’uomo
tra arbusti ed acquitrini
ma di solito il vento
che sospinge la pula
lascia polvere ed aghi
sulla fronte rappresa

*

Ti scelgo e t’assaporo
nella notte ialina
come spicchio succoso
e ti carezzo l’orlo
opaco e venerino
Hai nel pube un diamante
che coglierò ansimante
con le mani furtive
e un impeto discreto
e mi dirai che è dolce
giocare a darsi amore
tra sussurri sgualciti
tu nonostante Luna
                                                                              
*

Il tempo d’un buongiorno
già pigola un trambusto
e sfogli previsioni
sui guadi di giornata
metti in fila i percorsi
per non trovarti alfine
lucertola che svia
scorri attento gli appunti
segnati a marginalia
mentre giunge un vagone
di tegole inattese
e comprendi che è l’ora
d’andare verso il mare
per sorprendere l’onda
che stuzzica i pontili

*                                                                                                          

Non sarai di nessuno
non dell’antico padre
e nemmeno dei figli
verdi ma già remoti
Non sarai delle stelle
troppo lontano il cuore
e neanche del mare
che t’assesta sul molo
fingendo panorami
Non sarai della gente
non sa scrutare dentro
distratta si compiace
del nulla che l’assorbe



Nicola Romano vive ed opera a Palermo. Giornalista pubblicista, è stato condirettore del periodico “insiemenell’arte”e attualmente collabora a quotidiani e periodici con articoli d’interesse sociale e culturale. Con opere edite ed inedite è risultato vincitore di diversi concorsi nazionali di poesia. Alcuni suoi testi hanno trovato traduzione su riviste spagnole, irlandesi e romene. Con il circuito itinerante de “La Bellezza e la rovina” ha recentemente partecipato a letture insieme a noti poeti italiani.
Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: I faraglioni della mente (Vittorietti,1983); Amori con la luna (La bottega di Hefesto,1985); Tonfi (Il Vertice,1986); Visibilità discreta (Ed. del Leone,1989); Estremo niente (Il Messaggio,1992); Fescennino per Palermo (Ila Palma,1993); Questioni d’anima (Bastogi,1995); Elogio de los labios (C.Vitale, Barcelona,1995); Malva e linosa, haiku (La Centona,1996); Bagagli smarriti (Scettro del Re,2000; Tocchi e rintocchi (Quaderni di Arenaria,2003); Gobba a levante (Pungitopo,2011).