mercoledì 3 luglio 2019

"Rifrazioni" di Elio Pecora









RIFRAZIONI
Elio Pecora
Mondadori, Lo specchio, 2018




Non un io narrante, ma un sé osservato e raccontato dal di fuori, si manifesta sin dai primi versi di "Rifrazioni" di Elio Pecora, edito da Mondadori .

È il racconto di un'intima conversazione sull'esistere e sul mondo, sullo stare dell'uomo e del poeta in questo mondo "che plaude all'urlo e allo scandalo", in cui l'uno "A giorni parla dentro sé come dentro un anfratto / dove non può ascoltarlo che la sua stessa voce" e l'altro "Per scelta incruna parole / (fu scelta o devianza) / le chiude in sacche leggere / che va poi svuotando / dove fra secche granaglie / arrossa un croco."
L'opera, suddivisa in cinque sezioni, si sviluppa in un crescendo, per intensità sonora e ampiezza di visuale, componendo un unico poema. È come un sorvolo di falco che, più s'innalza, più focalizza i dettagli, più il suo canto riecheggia e più, pur flebile e distante, riesce a contrastare e sovrastare  il frastuono del mondo.
Si apre nello hic et nunc, nello spazio ristretto di un giardino "di dove guardare lontano", sancito dal verbo presente "dice", che ritorna più volte nei versi delle prime due sezioni "Rifrazioni" e  "Variazioni su canto fermo". 
L'uomo dice, il poeta annota: "Dice (ma dove ripara?) che da lui attendono / parole veloci, tali da acclimatarsi al sovrastante / continuo rumore: tanto scarne e sommesse / da evaporare come fuochi di foglie secche / nel fasto degli urli e dei proclami."
In "Andantino" e "Lo spessore dell'ombra", la visuale si espande, il poeta rivisita un passato di "luoghi anteriori" dove "L'aria è piena di anime" di amici e cari che sono scomparsi, ombre che tuttavia "hanno lo stesso spessore di quelli avidi e confusi / che vagano nel recinto brulicante dei vivi, / ma raffrenate queste da un patto concluso."
Ed è appunto ne "Il recinto", che titola la parte conclusiva dell'opera, "la città senza porte" dove l'uomo dimora "dentro recinti di mura / che chiudono altri recinti", che il poeta, dall'alto, riesce a vedere le guerre che "servono agli uomini", e i tifoni, e le morti in mare. Il passato, il presente, forse anche il futuro in un solo, unico istante che si ripete.
Fedele alla propria cifra, Elio Pecora riporta a chiare lettere il non visibile di ogni percezione, ci mostra "un'età affollata di dèi, / atteggiati in giacche striminzite" ridotti a nient'altro che parodie dell'uomo. Solamente "L'avo di tutti, il più temuto, Caos, / avanza a perdifiato, a capo chino." L'umanità è una folla anonima che anima le piazze con striscioni e slogan, "uomini, donne, ragazzi" che "chiedono un altro presente". E il lettore si ritrova lassù, con il poeta, in quell'affaccio da dove tutto appare chiaro, al contempo precipita di sotto, per diventare uno tra la folla, piccolo come una formica, con la sua "piccola vita".


Maria Grazia Di Biagio




*


"Il meglio - dice - quel che chiamiamo sublime
sta nell'ombra, nell'angolo: occorrono occhi
per vederlo, orecchi per ascoltarlo: come nel piede
danzante della Madonna di Caravaggio a Sant'Agostino
o lo screzio sorpreso di Desdemona nella canzone del salice."
parla guardando il pioppo che va sfogliandosi:
"Non scrivere - dice - quel che ho appena detto."




*


Sceglie le parole come un tubero o un seme da interrare
e sa che da questi verrà un frutto, un fiore,
una foglia minuscola. Sa pure
che la parola non è più di un cenno, un avvio
per un altrove nemmeno ancora intravisto.




*


Ci sono stati giorni
in cui forse la gioia
non era più di uno stordimento,
un vento fresco, lieve,
niente altro chiamava, valeva,
solo quel vento.




*

A.M.


Può mai tanta energia raggrumarsi
in un'ora a metà mattina di un giorno di ottobre
nella piccola stanza fra il divanetto e lo Schifano
e il tavolo di radica? Il telefono squilla molte volte
e ogni volta s'alza di scatto, spinge la gamba sana,
ruota, sbatte il fianco ossuto contro lo scrittoio,
si lascia cadere sulla sedia, solleva
il braccio destro per afferrare sulla cassettiera
il alto la cornetta e grida il "pronto".
Possibile che la sua vita intera
sia stata tutta in quel forzare
la sofferenza e vincerla duellando
anche da vecchio con la fragilità e l'inerzia?
Tornando così ironico, veemente?


(A.M., Alberto Moravia)




*


Nessuno sbarco stanotte a Lampedusa.
Nessun morto per mare. La carretta
- carica di una torma d'ingannati
da un'altra vita - 
forse non è partita.












***













lunedì 25 marzo 2019

Tre Poesie da "Nell'onda calma della natura" di Giovanni D'Amiano


RPlibri, 2018



Le erbe ruderali


Le erbe ruderali hanno radici profonde,
rami che si espandono rasoterra
e foglie piccolissime, con cuticola spessa.

Hanno frequentato la scuola di sopravvivenza
e sperimentato a loro spese ogni tentativo
della Natura Maestra.

Noi, esseri superiori, ne abbiamo snobbato
l'insegnamento, e le conseguenze disastrose
sono sotto i nostri occhi, ogni giorno





Il mio confine di sicurezza


Il mio confine di sicurezza
è ancora il prato verde,
la masseria, il fienile con la paglia,
e l'aia, che conserva grida e risa
di giochi e di battaglie.
Cornice nitida e ferma degli avi.

Voi dove mi cercherete?
In quale teca o specchio?
Ormai vecchio,
mi sono negato ai vostri occhi
in troppi rifugi e nascondigli.





C'è poco da stare allegri


Un soffice tetto d'azzurro
è cupola sospesa sul mondo.
Non vi scopro feritoie né strappi;
il buco su cui tanto si scommette
semplicemente deve essersi richiuso.
Se tuttavia siamo quella palla
lanciata nell'universo
dal remoto big bang iniziale
e trattenuta sospesa da un gioco
di traiettorie e di sponde,
di velocità e di massa,
c'è poco da stare allegri
nonostante la missione di ottimismo
invocata dal governo centrale.




martedì 19 marzo 2019

L'amore di un padre: "La contessina" di Daniele Cavicchia






La contessina


Avevi circa quattro anni e prima di cena
avevamo inventato il gioco
del conte e della contessina
fingendo d'incontrarci in una strada elegante
ricca di lampioni e vetrine illuminate,
ben sapendo che si trattava dell'ingresso di casa,
ed io baciandoti la mano dopo l'inchino, dicevo:
- Contessina, che fortuna avervi incontrato,
poi, vedendoti un poco emozionata, aggiungevo:
- Dove siete diretta così elegante?
Tu a capo chino, radiosa ed ancora emozionata,
rispondevi: - A teatro, Conte.
- Posso accompagnarvi?, chiedevo sfacciatamente.
E tu la prima volta, incapace di menzogne,
hai risposto - Sarà un piacere, Conte.
Allora ho interrotto il gioco sconsigliandoti
di accettare il primo invito, che era opportuno
lasciare il Conte nel dubbio,
perché bisogna essere degni di un tesoro.
Ed abbiamo ripreso il gioco, ti ho baciato la mano
e di nuovo ti ho chiesto: - Contessina,
ma che bella sorpresa incontrarvi!
Dove siete diretta così elegante?
- A teatro Conte, a teatro con maman.
- E posso accompagnarvi?, ho osato.
- Un giorno, forse. Buonasera, Conte.
E ti sei allontanata con sicurezza
perché il tuo essere donna
non aveva bisogno di insegnamenti
ed io ero pentito di aver interrotto la tua spontaneità
ma non avrei sopportato se anche per gioco
qualcuno potesse ferirti.
Poi la mamma ci chiamava per cena e il reale tornava
ma già allora eravamo complici
e ogni sera si ripeteva il gioco, ed ogni sera inventavi
scuse nuove declinando l'invito
ed eri così misteriosa Contessina
che ogni mattina speravo di svegliarmi Conte.




Tratto da: Dal libro di Micol
Passigli Poesia, 2008




lunedì 18 marzo 2019

"MANE" di Rolando D'Alonzo letto da Marcello Marciani



MANE

Rolando D’Alonzo

Tabula Fati, Chieti 2018


   Quest’ultimo testo di Rolando D’Alonzo costituisce il terzo tempo di una ideale trilogia iniziata con Mitologia minore, opera pubblicata nel 2014, e proseguita con Lune, nel 2016. Pertanto, ad un intervallo biennale fra libro e libro, D’Alonzo approfondisce il suo percorso in versi fra le spirali della Storia e della Memoria, sia individuali che collettive, cogliendo di esse le continuità e le differenze rispetto ad un presente privo di riferimenti certi, lacerato e immemore. Ma la stessa concezione di “presente” in questo libro è superata, perché l’autore guarda alle vicende contemporanee con uno sguardo non certo limitato al dato fattuale, cronachistico, ma secondo una visione trasversale in cui presente e passato, echi e vestigia della cultura classica, rimandi alla grande poesia occidentale del secolo scorso e lessici mutuati dall’odierna comunicazione massmediale ed elettronica convivono disinvoltamente. Assorbendo infatti la lezione di alcuni maestri della poesia del novecento, come Pound ed Eliot, Rolando sa che il passato si vivifica e rinnova nel presente e viceversa il presente trasporta i vessilli millenari di epoche passate, anche quando sembra celarli. Le Gorgoni rinascono così nelle stragi di Kabul e di Gaza, le figure muliebri colte fra creme al retinolo e asfalti di periferie hanno i nomi di Tecla, Milesia, Cleobule. Tutto al tempo stesso è “contemporaneo” e “arcaico” in una compresenza spiazzante, in una narrazione prosodica che eleva a livelli di alta affabulazione linguistica, in un’aura mitica, l’esperienza del pensiero. Perché un dato è certo: questa scrittura nasce da un continuo, incessante pensiero, che permette di compattare insieme occasioni private e tragedie della Storia, slanci amorosi e invettive civili. È il pensiero a far sì che l’io poetante non si identifichi con l’ego del poeta, nemmeno quando ne svela le inquietudini e le fragilità, ma lo faccia vibrare in una voce corale da aedo, che riesce ad unire i vari registri dell’opera, sia il lirico che l’epico, sia il sublime che il beffardo. Afferma Francesco Paolo Memmo a proposito dell’opera di Ferdinando Falco, un grande poeta sperimentale sconosciuto al grosso pubblico e scomparso due anni fa: “La poesia (per Falco: ndr) non è espressione lirica dei sentimenti (la formula crociana studiata a scuola), non è esibizione di sé, non è contemplazione del proprio ombelico. La poesia è pensiero. Pensiero che si fa forma. Pensiero poetante. Pensiero che si nutre di tutto ciò che tocca, della nostra storia e di quella degli altri, delle radici che abbiamo coltivato, della cultura che ci ha formato, delle persone che abbiamo incontrato. Perciò la poesia può essere una cosa e un’altra: perché tutto alimenta il pensiero. Si procede non per sottrazione ma per accumulo. E anche il superfluo è necessario. Il caso irrompe nel disegno. Ed è inarrestabile il pensiero, nessuna gabbia può imprigionarlo" (*). Analisi questa del tutto applicabile all’opera di D’Alonzo, che non scaturisce da un impeto irrazionale ma da una incessante elaborazione speculativa, che tuttavia non si arena in algidi concetti ma si converte in suono, ritmo, parola che si dipana senza intrappolarsi in prefissate gabbie metriche ma seguendo un suo personalissimo andamento fluviale, poematico, che agilmente passa dalle terzine ai distici sfalsati, da stralci di esametri a sparsi endecasillabi e dodecasillabi per esprimere le sfaccettature e le vivaci divergenze di un pensiero che ogni campo del reale e dell’immaginario sostiene e trascina. A proposito si possono citare come esemplari due passi:

“In pensieri di vento se ne vanno in viaggio
gli alberi e mai abbandonano la soglia terrena (…)”

“Pensano le case nelle notti estive,
vuote conchiglie di opere addensate,
pensano in un procedere di tremiti

e vive scale, pensano nel cigolio di porte
alla divisione delle stanze, alle ramaglie
che serrano le nuvole all’ansito
delle forre (…)”

   Ecco quindi che gli alberi, le case, pensano, in una sorta di animismo alimentato da una forza interiore che dovunque si espande. Ma non si creda con questo che ci si trovi dentro una poesia tutta cerebrale, intellettualistica, perché il pensiero è un’energia totale, che attraversa mente e corpo, entra anche nei sentimenti e nei sensi, fa sue le gioie e le ansie dell’amore, esplorato soprattutto nelle sezioni intitolate a nomi latini di donne, che hanno lo scopo di decantare lessicalmente il tema amoroso, di distanziarlo in un’aura classica eppure straniata, inquieta e inquietante, come accade in certi componimenti che sono incantate epifanie, fuori dal tempo e dallo spazio quotidiani eppure attraversate da tempi e spazi di più epoche intrecciate:

“Una porta tu sei che nella casa
tra oggi separa e l’altro ieri
tra questi passi che gli uomini

in me segreti lasciano su lane
e basole, senza rumore senza
distanze da coprire senza via

e le altre sconfinate rive le altre
porte da inventare di sera
in sera in riva a ogni mare.

Una porta tu sei che sempre
aperta alle dita in fiore cede
alle lucciole dei giorni brevi
(…)

   Il lirismo intenso e acceso di questi versi, e di molti altri delle prime sezioni,  dedicate alla luna e alla figura femminile, contrasta col timbro acre e caustico, da furiosa invettiva civile, di altri, dove si scatena tutto il sarcasmo e la rabbia dell’autore verso un mondo che non conosce altro valore, o meglio disvalore, se non quello del profitto e del tornaconto, anche a costo del cinismo più cruento ed efferato. Un vero manifesto in tal senso è il componimento La tavola: lungo 179 versi, occupa tutta la penultima sezione del libro come un poemetto a sé stante, eppure inserito in piena armonia nella struttura poematica delle altre parti dell’opera. Qui la reiterazione ossessiva del termine o.k. si fa suono cupo di un tamburo tribale, di un occidente divenuto giungla d’interessi globalizzati, “venuti fuori per errore da una cassa/ proibita”. I rimandi precisi all’attualità, alle storture, alle torture e agli eccidi della Storia recente, vengono comunque inseriti in un discorso di accorata pietas umana, con uno struggimento che pervade e lacera i versi finali:

Poi disponiamo le nostre piccole morti
disparati alla meno peggio, esequie
comprese, ai cantoni dei caseggiati

profili arrugginiti nell’ombra dei muri
in giri smunti che il sole in un gomito
dividono in altri successivi mondi

mattini notti a piedi da inventare
disperati fino all’ultimo respiro
fino al trasalire in mezzo al vetro

dell’ultima azzardata stella, noi
riflessi da una polvere di strada,
paglia che mai più si infoca.

   Pertanto in quest’opera coesistono la lirica e l’epica, lo slancio amoroso e l’invettiva, la rivisitazione di lessici e moduli classici e l’addentrarsi negli slang e nei tic verbali odierni, l’armonia delle terzine e lo spezzettarsi della prosodia in forme metriche eccentriche: sembrerebbe un insieme incoerente e caotico e invece ogni aspetto tematico e formale s’incontra e torna nella dinamica di un “pensiero poetante” che sa orchestrare temi e stilemi diversi fra loro con il vigore addensante, imprevedibile e a suo modo miracoloso, della parola. Perché quel Mane del titolo, quel primo mattino in cui, secondo una dichiarazione dell’autore, la mente è ancora intrisa dei sopori e dei fantasmi della notte eppure si apre allo stupore di un nuovo risveglio, è pure il momento in cui il pensiero comincia ad articolarsi in parola, a scandirsi ancora una volta nelle più varie e contrastanti sillabazioni del dire.


Marcello Marciani



(*) dalla Prefazione di Francesco Paolo Memmo a Della morte del caso del superfluo e altre poesie dattiloscitte, di Ferdinando Falco, Edizioni Cofine, Roma 2018

venerdì 15 marzo 2019

Andrea Zanzotto: Eppure tra questa che seppi menzogna




Eppure tra questa che seppi menzogna,
nella vita, rabbioso m’attardo.
Ecco, è come se verso la brughiera
che è eletta dalla lepre
e che il pioppo circonda e vuole a
ombroso letto ai riposi
della sua corona che perisce
nei giorni, è come se
in questo andare che non ha ancora
senso, ma già rifiuta la paura
rifiuta il silenzio – ah, individuata
e subito confusa legge, bruto
plasma, densissima lingua –
io sia colui che “io”
“io” dire, almeno, può, nel vuoto,
può, nell’immenso scotoma,
“io”, più che la pietra, la foglia, il cielo, “io”:





da IX Ecloghe, Mondadori, 1962, vv. 96-113…

lunedì 21 gennaio 2019

PASSIONE POESIA - AA. VV.

Letture





Passione Poesia 
(Letture di poesia contemporanea 1990 – 2015)

Progetto a cura di:
Sebastiano Aglieco, Luigi Cannillo, Nino Iacovella

Edizioni CFR/ Gianmario Lucini, Milano 2016








Passione e Poesia, due parole abusate, oggigiorno, adoperate negli spot pubblicitari di liquori, profumi, automobili e finanche nelle propagande elettorali. Recuperate nella pienezza della loro etimologia, danno il titolo a questa antologia poetica pubblicata dalla CFR, e l’esatta misura dell’intento dei curatori Sebastiano Aglieco, Luigi Cannillo e Nino Iacovella.
Lungi dal voler essere un rendiconto esaustivo del panorama poetico degli ultimi venticinque anni, questo volume raccoglie, tuttavia, un numero cospicuo di poeti, molti dei quali notissimi, altri quasi sconosciuti, ognuno presentato attraverso un unico testo, ritenuto rappresentativo per tematica e stile.
La scelta e la lettura di ciascuno dei 115 testi poetici presenti sono affidate ad altrettanti poeti, critici, operatori culturali, i quali, pur nella diversità delle tematiche e dei linguaggi presi in esame e dell’impostazione dei saggi critici, danno vita ad un corpus inaspettatamente unico, dal quale emerge un sentire comune su cosa essi intendano per poesia.
Sul poeta prescelto, ogni autore redige una nota di presentazione assolutamente personale in cui competenza e coinvolgimento emotivo danno vita a letture estremamente chiare e gradevoli, in certi casi commoventi come, ad esempio, accade per la nota ai versi di Ermanno Krumm che Annalisa Venditti scrive in forma di racconto breve, descrivendo l’incontro con la vedova del poeta, nella quale riconosce  “la sconosciuta dal passo saltellante” della poesia.
Che si tratti di poesia lirica, civile o politica, c’è una onestà di fondo a fare da fil rouge all’intera opera. Non c’è spazio per gli infingimenti, è bandito il mero esercizio di stile, così come l’esposizione narcisistica dell’Io poetante;  in sintonia con il pensiero del poeta editore Gianmario Lucini alla cui memoria è dedicato il libro.
Al lettore non sfugge la coerenza delle scelte, volte a un versificare che coniughi forma e sostanza, in cui la ricerca formale cioè, non prescinda, come ricorda Vincenzo Mastropirro nella sua nota sul poeta,  dall’obiettivo caro a Lucini, di “parlare alla gente di cose che potessero coinvolgere tutti con argomenti che riguardassero gli ultimi degli ultimi”.
“Per abitare questo mondo mi farò trasparente”, recita l’ultimo verso del testo di Lucini. La figura del poeta si pone, dunque, come “marginale”, aggettivo su cui si sofferma Nino Iacovella citando in prefazione Andrea Zanzotto. Il poeta non è che uno strumento,  un mezzo attraverso il quale la poesia passa da un umano all’altro, un semplice “scriba”, ribadisce Antonio Donadio nella sua accuratissima analisi dei versi di Mario Luzi: “Scrive / lui scriba / il già scritto da sempre / eppure mai finito, / mai detto, detto veramente.”
E forse è ai “margini” che deve restare, il poeta, fino alle estreme conseguenze, perché da lì la visione è chiara, e dà modo ai versi, anche quelli del dissenso di  un giovanissimo Alberto Dubito Feltrin, portavoce di una generazione nata senza speranze, di gridare: “Non saranno i vostri fumogeni a farci vedere meno chiaro” […] “Non sarà la noia della gloria di questa italia a farci fuori, / perché fuori noi ci siamo Già / (e quello che vi fotte è che io sono più sincero, / o almeno lo ero)”.


Maria Grazia Di Biagio


già su POESIA 337 (Lo scaffale di Poesia)
Crocetti Editore, 2018
Numero di maggio