Incuriosisce il titolo, che richiama molteplici visioni, di
primo acchitto fa pensare alle Stanze della metrica che compongono un canto,
oppure agli ambienti di una casa , uno dei quali è di certo quello in cui, nella
“Vita Nova”, il Poeta cercava solitudine e silenzio, la “camera, là ov’io potea
lamentarmi sanza essere udito”.
In questo libro le Stanze
sono luoghi mentali, che la poetessa attraversa per ripercorrere le fasi della
propria esistenza, eppure le sentiamo risuonare, mentre Tina Caramanico accumula
“panni, passi, nuvole e pensieri”, taglia “troppe verdure”, cambia “letti
puliti e direzione” figura silenziosa, ombra di se stessa, quasi “assenza” ma
attenta osservatrice del suo vivere e del suo tempo, della realtà dentro cui si
muove in punta di piedi.
La Caramanico non ricorre ad infingimenti, usa la penna come
un bisturi, scava impietosa dentro di sé e nella realtà, individua la pecca, la
estrae, l’analizza con perizia scientifica.
Osserva, prende atto della deriva dei valori di una società
della quale non si sente parte:
“Sospiro e come tutti i vecchi / immagino la fine lenta / e
in fondo meritata / di questo popolo d’imbecilli millenari”.
Non indulge neppure con se stessa, quando, guardandosi da
fuori, riporta: “Su una panchina qualsiasi / del centro commerciale di Novegro
/ lascio marcire il tempo / la domenica pomeriggio / e me, cono d’ombra senza
parole”.
In un mondo in cui l’uomo è ridotto a merce, i sentimenti ad
emoticon, l’amore è quello “crudele dei tempi di facebook”, il valore della
persona, determinato non da ciò che si è ma da come si appare, la tentazione è
di adeguarsi, stare al gioco: “Vorrei stare laggiù, in vetrina / e avere un
cartellino al collo, / un prezzo di cosa / che puoi vendere o comprare, / che
puoi desiderare.”
In uno stile semplice da leggere (il più difficile da
scrivere), colloquiale, la Caramanico porge al lettore visioni altamente
poetiche e al contempo crude di una condizione esistenziale indagata con
lucidità, resa universalmente riconoscibile.
Qui non si dice del dolore, è il dolore che dice con voce di
donna: “Il mio destino è stare dove non sono, / mancare la felicità / sempre di
un fiato.”
Amare non basta, al raggiungimento della felicità, se l’altro
è “l’estraneo, / il compagno di viaggio incontrato per caso, /che sopportiamo
perché ha lui il pane / e l’acqua nel deserto” e, se non è indifferente,
giudica, come tutti gli altri, non comprende.
“Non conobbi nessuno / che non mi calpestasse”, scrive la
poetessa, tuttavia, “Non arresa / all’insistere del male” procede nel suo tempo,
una stanza della vita dopo l’altra, verso la riscoperta o ricostruzione di se
stessa, del proprio esserci nel mondo.
Coesistono, in questa raccolta poetica, fragilità e forza, consapevolezza
del tempo perduto e determinazione nell’andare avanti, perché “arriva il tempo
in cui bisogna rinunciare […] all’incompiuto” […] e di entrare nella stanza
giusta “abbagliata dalla felicità improvvisa / di saper chiudere il cerchio / e
dimenticare”.
Non esiste un solo verso, in questo libro, che non tocchi le
corde del sentire, che non mostri un segno cicatriziale in cui riconoscersi,
uomo o donna che si sia, come davanti a uno specchio.
Maria Grazia Di Biagio
Non arresa all’insistere del male,
alla domanda oscena che solfeggio a Dio
solo perché non chieda lui a me
alla fine che sono e dove voglio andare,
se mi sono persa davvero nel giardino.
Non arresa
alle manovre d’approdo,
ai pontili assolati in lontananza,
al passo inconcludente della rassegnazione.
Non arresa
all’amore che ti lega,
alla speranza assurda di contare.
Sto dove stavo,
cerco l’ombra più larga,
la consolazione del vento,
una canzone che non sa nessuno,
la vaga idea di esserci già stata, qui,
forse a dormire sola in una barca, come un gatto.
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