È con l'atteggiamento rispettoso che si assume entrando nel tempio di una fede differente, che il lettore si dispone alla lettura de “Gli imperfetti sono gente bizzarra”.
Movendo dall'assunto che “tutta la poesia è oscura perché è polisensa e può essere letta a vari livelli” (Luciano Luisi), apro ogni libro di poesia con l'entusiasmo dello scalatore ai piedi di una montagna nuova, munito, sì, degli strumenti necessari a raggiungere la vetta ma libero da ogni pre-visione.
Mai come nel caso di questo nuovo lavoro poetico di Rita pacilio per La Vita Felice, questa disposizione risulta fondamentale. Fermarsi ad un primo livello di lettura, quella più immediata nella quale vorremmo riconoscerci, significa interrompere la scalata a pochi metri dal terreno rinunciando alla visuale maestosa che ci aspetta in cima.
L'impianto narrativo dell'opera si sviluppa nel senso di un attraversamento in verticale da un luogo geografico, indicato come punto di arrivo che è ad un tempo nuovo punto di partenza verso l'intangibile.
Tutto pare svolgersi in una dimensione acquatica.
Il piccolo lago vulcanico di Nemi segna il confine fisico fra il mondo del consueto, riconosciuto come normlità, e un mondo altro, parallelo, dove vivono gli “imperfetti”.
Il lago ci accoglie con “un gesto di doloroso silenzio”, è trait d'union con la realtà e soglia liquida da oltrepassare per accedere al luogo di un altro vivere, ma per farlo occorre affidarsi al poeta, lasciare che ci prenda per mano e ci conduca con sé in visita al fratello Alfonso.
“Davanti al cancello” un'acqua diversa ci aspetta: “...espandendosi come sterile lago/ emergono occhi di piogge rifratte..”
Entrare è un'immersione nell'inferno liquido dei folli:
“Sono loro quella composta di cose/ che ha intristito la vita ai giusti”.
Per raggiungere la stanza del fratello, i piani dell'edificio sono gironi da attraversare dove fluttuano creature concluse in gesti senza senso destinati ad essere reiterati in eterno, forse angeli caduti in un mondo che non li comprende.
“quelli del primo piano chiedono l'ora/ collezionando dossi per l'inverno”
“quelli del secondo piano tremano/ il morbo che cresce nell'addio”
“Nei sotterranei dormono le larve”
Questi sono gli amici di Alfonso: “hanno le ali sotto la / maglietta...”
e anche “Alfonso ha le ali di angelo bianco/ due voli che si moltiplicano/ come non ho ma visto fare all'onda/ un rotolare nel fondo del sonno.”
Man mano che ci si addentra nell'abisso, il linguaggio sublima da visivo a visionario, necessariamente, in un crescendo di dolorosa intensità che culmina nell'assunzione totale su di sé del dolore fraterno:
“Per la terza volta torno all'ospizio/ raggomitolato in un cucchiaio/ ti mando giù in un boccone solo/ mentre dormi cisterna in prestito.”
Il contatto è dialogo dei sensi, simbiosi delle anime che supera la parola, compenetrarsi di pupille, gesto di accudimento di sorella-madre che sa essere amore nel silenzio.
E il lettore è là, a pochi passi da loro, sopraffatto dal chiarore emanato dalla fredda consapevolezza delle descrizioni oggettive e segnato dalla grazia feroce con la quale il poeta donna è capace di denudarsi per mostrarci le piaghe più intime della sua stessa carne.
Maria Grazia Di Biagio
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