lunedì 2 luglio 2018

"Vite di sguincio" di Remo Rapino letto da Marcello Marciani







VITE DI SGUINCIO
di Remo Rapino
Ed.Carabba, Lanciano 2017







    In questo libro convergono molti temi e stilemi che hanno caratterizzato il mondo poetico dell'autore in un buon quarto di secolo di intensa attività letteraria. In esso troviamo infatti l'interrogarsi sul senso dell'esistenza e della Storia; la ricerca di un possibile, o anche impossibile, Altrove; il rischio della sfida; il valore fondamentale dato alla Parola e, con essa,  alla narrazione, che tramuta l’analisi di nuclei individuali in storie di gesta, in miti e saghe; la coesistenza del registro epico e di quello lirico; l'andamento fluente, orale, di molti racconti, e il timbro stringato e asciutto di altri: insomma questo lavoro è una sorta di ventaglio aperto sui vari aspetti, tematici e formali, dell'intera opera di Remo Rapino.
  Ed è un ventaglio ricco di colori a contrasto, frusciante di suoni ed echi diversissimi fra loro, impregnato di vari umori e profumi, perché in ogni sua stecca e striscia c'è una porzione di mondo, visitato sotto l’aspetto geografico, indagato nelle epoche e nelle ragioni  storiche, espresso nelle lingue e nelle parlate d’appartenenza. Si passa così dall’Abruzzo scabro e deserto di Rocca Calascio a quello collinare, prossimo al mare, di una probabile, appena allusa, Lanciano; dalla Sicilia delle zolfatare di inizio novecento alla Sardegna ottocentesca dei primi moti d’autonomia; dalla tragica Fuente Grande di Garcia Lorca alla Rio de Janeiro delle miserie e delle rivalse degli anni sessanta; dalla Stalingrado stretta sotto l’assedio bellico del '43 alla Sarajevo fratricida degli anni novanta, fino al Cile degli anni settanta, fra l’Unità Popolare di Allende e il Colpo di Stato di Pinochet. E, fra le le pieghe dei vari racconti, si inseriscono rimandi alle tante migrazioni dal nostro paese alle Americhe, memorie sulle due guerre mondiali, insieme a citazioni di poesie e canzoni popolari che rendono il fascino e la malìa  d’antàn  delle varie ere. In questa volontà di addentrarsi fra paesi e periodi storici così diversi fra loro c’è non solo la curiosità antropologica dell’autore, che registra con estrema precisione documentale e lessicale vicende e parlate, ma la necessità di portare avanti un’indagine conoscitiva alta, a tutto campo, onnicompensiva, sul ruolo della Letteratura oggi.
     In anni recenti siamo stati invasi da opere narrative minimaliste, centrate su storie private, o meglio privatiste, dove l’intimismo più egocentrico viene espresso in una prosa asettica, articolata in frasi e periodi brevi, con terminologia ridotta e scarsa aggettivazione, modulata sui manuali standard delle scuole di scrittura, spesso operanti anche online. È sorta in tal modo un'intera classe di giovani autori uniformati su tali modelli, che sembrano nati dal nulla, difficilmente distinguibili fra loro eppure supportati anche dall’editoria di richiamo, che vede in questa semplificazione del linguaggio un notevole riscontro di vendite. In tale ambito l’opera di Rapino, così invece "massimalista" per contenuti e forme, potrebbe apparire restauratrice, perché portatrice di valori antichi eppure inossidabili per chi tiene ancora al ruolo conoscitivo, oserei dire salvifico, della Letteratura. E il valore fondamentale è proprio nel senso che l’autore dà alla parola, e nell’uso che ne fa. Ancor prima di essere il narratore fluente ed eclettico che oggi leggiamo, Remo è un poeta. Egli esordisce nel 1993, con la raccolta di versi Dissintonie, a cui ne seguono altre per un buon decennio fino alla pubblicazione nel 2006 del romanzo Un cortile di parole, vincitore del Premio Penne-Mosca. E da poeta, il nostro autore ha sempre saputo che è la parola che fa l’opera, non i sentimenti provati né i fatti narrati. La parola che interpreta a modo suo la vita intera, come nell’esergo di Garcìa Marquez posto in apertura al primo racconto di questo volume: “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”. E l'esergo di Garcia Marquez è una sorta di vessillo ideale sotto cui procede l'intera narrazione. In una pagina molto indicativa al riguardo, si afferma che "non esistono fatti, esistono soltanto le storie, modi infiniti per raccontarle e così cambiarle ancora, per tentare di cambiare la Storia: questa, forse, la sola condivisibile verità". E Cafiero della Torre, uno dei personaggi della sezione dei sognatori, precisa in un altro passo che la vita va raccontata "senza confini fra il falso ed il vero, i voli e le cadute, tutta la vita vissuta, miraggi compresi, nella mente e nel fragile cuore". In questa concezione risiede l'essenza dell'epos, che in greco sta per "parola" e, in senso più ampio, "racconto", riferito e tramandato oralmente, arricchito e trasfigurato dalla fantasia del narrante stesso. Per cui sia il substrato storico che la dimensione politica dei testi, così come  la perizia nella resa geografico-ambientale e nella trascrizione delle varie parlate, pur notevoli di per sé, non avrebbero un valore letterario autonomo se non fossero inglobate in quella sapiente orchestrazione narrativa, e poetica insieme, che fa della parola, lavorata e articolata nelle sue molteplici valenze sonore, emotive e gnoseologiche, l’asse portante dell’intera opera. Può sembrare ovvio ribadire l'importanza della parola, mezzo indispensabile senza il quale non esisterebbe scrittura alcuna, ma in Rapino non c'è solo la piena consapevolezza del mezzo, ma il suo delinearsi come tema fondamentale, metaletterario, ricorrente in tutti i brani del libro, a volte addirittura visto come un fine. È ciò che accade in uno dei testi più affascinanti dell'opera, La terra è blu come un'arancia, che è il primo nucleo germinativo del romanzo Un cortile di parole. In esso il personaggio di Aureliano, nome scelto per omaggiare il Garcia Marquez di Cent'anni di solitudine, da umile manovale a giornata diventa il proprietario-depositario di una biblioteca di 30.000 volumi, raccolti in ogni dove con infinita pazienza e amore per la lettura, perché egli è convinto che "le storie dei libri erano l'unica possibilità di ri-creare il mondo da capo, meglio di una rivoluzione", e ancora, citando un altro frammento: "la parola era il gesto più libero che l'uomo avesse a disposizione per non subire soltanto, per vivere e far vivere ogni possibile alternativa, un'avventura della mente e del cuore". La parola quindi come conoscenza e rivalsa da un mondo ingiusto e meschino, come estrema libertà e affermazione di sé. Molti personaggi infatti hanno la necessità di narrarsi, finanche di parlarsi addosso, “come un vecchio cane da guardia che parla e sparla alla luna”, in un movimento a spirale che, partendo dal pensiero, investe l'intero corpo del narrante e, con esso, la terra d'appartenenza, con le radici dei ricordi e la nebbia dei sogni. Questo autoraccontarsi tuttavia non è uno sfogo solipsistico ma un modo per cercare un senso alla propria esistenza, in rapporto sempre agli incontri fatti, ai lavori intrapresi, alle amicizie, alle speranze e alle illusioni collettive, agli amori vissuti o sognati. Si inseriscono in tal modo, nel film della memoria, frequenti flashbaks attinenti alle vicende della famiglia, o del paese, o della Storia generale in cui la piccola storia dell'individuo viene situata: il racconto così si dilata, attraversato da svariate inserzioni di altri episodi e avvenimenti, diventando un racconto di racconti, acquistando lo spessore e l'ampiezza di un'epopea. Il narratore diventa pertanto un affabulatore, che accavalla in bocca fonemi, termini e frasi per mantenere vivo il ricordo e ritardare il momento della morte, come fa il vecchio nonno attorno al quale, al calore del camino, i nipoti ascoltano incantati intrecci di trame confinanti col mito. E quando tutto il percorso del personaggio principale, narrante o narrato (a seconda se viene usata la prima o la terza persona), viene scandagliato nei minimi dettagli, dalla nascita alla fine, la scrittura si conferma copiosamente orale: ingloba nel discorso frammenti di proverbi, di canzoni, di credenze tramandate, indugia in iterazioni e varianti, per restituire il corso della vita che procede come un largo fiume, pur diramandosi in innumerevoli rivoli. È questa una tecnica che ha origini antiche, dal versificare degli aedi, dall'oratoria dei contastorie, e che si rinnova in epoca moderna in molta narrativa latinoamericana, di cui Remo è caloroso cultore. Essa permette all’autore di addentrarsi nella carne viva dei suoi personaggi, di indagare sulle loro ragioni e pulsioni, di interrogarsi sul senso dei loro percorsi, di restituirne lo sfinimento della solitudine, la felicità dell'amore, l'agonia estenuante del trapasso. Le Vite di sguincio, ordinate nelle tre categorie differite dei balenghi, dei sognatori, e dei quasi eroi, sono in realtà accomunate da un uguale tipo di approccio nei confronti del vivere, che è quello dell'essere autentici, di affermare la propria natura senza infingimenti, di sfidare le convenzioni e la sorte, di tentare l'avventura dell'impossibile, di inseguire i propri sogni senza cedere agli opportunismi e ai tatticismi sociali. Così Mengo, definito balengo perché è un vecchio testardo, incollato in totale solitudine, per ben dodici anni, alla sua Roccacalascio, di cui resta l’unico abitante, è anche un sognatore e un quasi eroe, che rivendica il diritto di restare nella sua terra, di difenderla contro tutti gli ex paesani che sono fuggiti verso massificate città. E Liborio, il muratore rimasto afono e intronato a causa della morte di Togliatti, si strugge per la sua balbuzie e sogna di recuperare la parola, perché sa che è il mezzo elementare per affermare la propria autonomia comunicativa. Così Kurt ed Ante, protagonisti delle vicende più crude e atroci dell'opera, attinenti a due momenti tragici della storia europea, la battaglia di Stalingrado e l’assedio di Sarajevo, non sono soltanto dei quasi eroi, ma dei totali balenghi e sognatori, che sfidano la morte e si immolano per una sonata al pianoforte e una tanica piena d’acqua. Le pagine che raccontano il loro sacrificio sono le uniche in cui viene abbandonato il timbro discorsivo e fluviale, perché qui non c’è una vita intera da narrare ma i pochi minuti che precedono e accompagnano l’esecuzione delle vittime, e la prosa diventa asciuttissima, densa, affilata e ricca di sottotesti come la più tagliente e dolente delle poesie, a dimostrazione della sorprendente capacità di Rapino nel saper adottare stili di scrittura diversi a seconda  della differenti  storie trattate.
    Ciò che accomuna queste figure è in definitiva la loro spiazzante spiritualità, la loro commovente, a volte folle, umanità. Quella che fa dire ad Aureliano che “non amare gli uomini, tutti gli uomini, era come essere morti”, quella che serpeggia e si intrufola nella difformità dei luoghi e delle epoche, nella mappa cosmopolita compattata dalla fantasia e dall’abilità dell’autore, e che gli fa concludere che, a dispetto delle contraddizioni e delle crudeltà della Storia, la vita va vissuta, ascoltata “quasi ogni vita fosse la nostra”, ri-pensandola “come luogo di un universale destino, dolce ed amaro insieme, perciò umano, perciò libero”.



                                                                                                  Marcello Marciani

                                                                                      Lanciano, 3 maggio 2018
  



                                    
  presentazione ex Casa di Conversazione di Lanciano, giovedì 3 maggio 2018