giovedì 31 maggio 2018

Cristina Campo: "Amore, oggi il tuo nome"









Amore, oggi il tuo nome
al mio labbro è sfuggito
come al piede l'ultimo gradino...

Ora è sparsa l'acqua della vita
e tutta la lunga scala
è da ricominciare.

T'ho barattato, amore, con parole.

Buio miele che odori
dentro i diafani vasi
sotto mille e seicento anni di lava - 

ti riconoscerò dall'immortale
silenzio.









da: "La tigre assenza"
Adelphi










lunedì 28 maggio 2018

Vittorio Sereni - Saba -





Berretto pipa bastone, gli spenti
oggetti del ricordo.
Ma io li vidi animati indosso a uno
ramingo in un'Italia di macerie e di polvere.
Sempre di sé parlava ma come lui nessuno
ho conosciuto che di sé parlando
e ad altri vita chiedendo nel parlare
altrettanta e tanta più ne desse
a chi stava ad ascoltarlo.
E un giorno, un giorno o due dopo il 18 aprile,
lo vidi errare da una piazza all'altra
dall'uno all'altro caffè di Milano
inseguito dalla radio.
Porca - vociferando - porca. Lo guardava
stupefatta la gente.
Lo diceva all'Italia. Di schianto, come a una donna
che ignara o no a morte ci ha ferito.





da: "Gli strumenti umani"
Einaudi, 1965

venerdì 11 maggio 2018

Connubio d'Arte : Ivano Pardi & Grazia Di Lisio - "Anime acquee"

Ivano Pardi




Anime acquee




Fotoni stralunati di profughi
marini – di larve che s’avanzano
agli orli di un sipario,
pallidi i sembianti …
(un soliloquio di chiarore
da sferici fondali).
È il canto d’un approdo
o scialbo liquefarsi di voci
memoriali, d’anime acquee?
Come vanno vinte e … avvinte
nel bubbolio silente
tra il ferino e l’umano!
Da forze oscure brividi di vita
(come sogno di Jung)
e flebili farfalle 
e steli di vaga azzurrità.



                                      
Grazia Di Lisio
Da "Compresenze", Tracce 2009

                                                          



Anime acquee



Il monte Camicia, che riveste a strapiombo il verde profilo dei colli di Castelli, sulla scarpata dove fluisce il gorgoglio del fiume, può diventare malinconico specchio del Dna del dolore. Un paese, un gorgo silente. Ma il verde può evocare l’azzurro interiore come un giglio d’acqua che fluttua nel grumo della mente e rimuove emozioni, affetti lontani. I pigmenti sfilati del paesaggio di Pardi si slargano di rinnovate emozioni, di colori svaporati in memorie involontarie, magmatiche onde stese a plat con la forza e la morbida plasticità di un vigoroso pennello. Eco di chiaroscuri interiori di ombre distese sull’ombra dell’inconscio; ma è il pastello il tenue bagliore che illumina e modella pulviscoli cromatici di essenze luminescenti: scandaglio dell’altro da sé, un appiglio in cui nascondere ombre del passato, in cui disvelare l’attesa di figlio dietro un muro di alghe mobili, sia pur avvinghiate a cordami di dolore. Pardi stempera la sua visione affettiva in ‘acquarelli dell’anima’, in un impressionismo dialettico che sprofonda con l’accentuarsi del celeste-azzurro, nel magma dell’io: le ombre che appaiono e scompaiono dai fondali sono anime d’acqua, fantasmi danteschi in delirio di coscienza, con volti deformati e imprigionati in rivoli d’acqua. Eppure, come fotoni di luce, rimbalzano dallo sfondo, guizzando in trasparenza. Sono le onde del pensiero a catturare i ‘bissi’ di mare che ci legano al destino, a creare immagini e visioni di profughi in cerca di approdo nell’isola che non c’è, dilatando il respiro accarezzato oltre l’altrove. I contrasti esistenziali sono resi con tutta la gamma d’azzurro fino al blu profondo del mare. Le identità stravolte diventano ombre sfumate, fili tesi, vibrazioni di magma. Tsunami cromatico che ingorga terra e mare.
                                                                                                                                                   

Grazia Di Lisio 








 

giovedì 10 maggio 2018

Letture: "Louis" di Luigi D'alessio





Louis
Luigi D’Alessio
RPlibri, 2017




L’opera, si apre con un prologo, un moderno proemio che polarizza, sin dall’immediato, l’interesse del lettore sul rapporto dialogico tra un io narrante anonimo e un io narrato che ha nome Louis, il soggetto agente, di cui si parla al passato, cui è demandato l’onere di esistere in un quando doloroso, in un mondo vedovo, vagando “da un bar a un bar” a innamorarsi “per nullafacenza” di bariste e badanti russe delle quali non s’innamora, leggendo  la poesia di Eliot , di Montale, della Rosselli, ascoltando musica di Mahler, Beethoven, Chopin, Miles Davis, per poi rivelare che lui, della musica, ascolta  “il fruscio”.
Ma la vera protagonista è un’assenza, una lei che non ha nome e molti nomi epici, è Clizia, Fedra, Selene, persino un Odisseo al femminile cui sono indirizzati versi, lettere non scritte da “un Calipso” che dispera il suo ritorno.
L’autore maneggia le parole con la perizia di una merlettaia di lungo corso che, con dita agili e sicure, intreccia centinaia di fuselli, esegue nodi, legature, getti, punta con precisione ogni spillo.
Ne risulta un tessuto narrativo compatto, coerente, inoppugnabile. 
Un dettato in cui, tratti meditativi, tensione lirica, riflessioni sapienziali raggiungono apici altissimi per poi lasciarsi stemperare dallo sguardo ironico, talvolta canzonatorio, dell’io narrante.
Una scrittura alta, dunque, che seduce e convince per le oscillazioni fra memoria e visione sapientemente calibrate, per la salda aderenza al proprio centro d’ispirazione. Questo Louis è "necessario" come afferma, a ragione, Valentino Fossati nella sua accuratissima postfazione, necessario all'autore l'artificio che consenta l'affondo nell'intimo guardandosi da fuori, necessario al lettore che, se Louis non fosse stato scritto, ne sentirebbe la mancanza.


Maria Grazia Di Biagio




*


Louis fumava
sempre una sigaretta
prima del caffè.
Ma quella mattina Louis
mentre con la sigaretta
attendeva di entrare al bar
mi disse di averla vista
col giornale a un tavolino.


Louis parlava chiaro:
sostenne di averla vista
ma non c’era.




*


Louis per agevolarsi
sul lavoro
– restaurava l’inconscio,
mi disse stava leggendo
solo quelle poesie in cui
il primo verso era
espresso dall’ultimo.

Louis mi sorprese molto.
Louis mi fece riflettere
sul perché nella realtà
la fine non corrisponde
mai all’incipit.




*


Louis era molto dubbioso
sul Sempre. Preferiva l’Oltre.

Si salutarono
per l’ultima volta.
Louis mi disse
che ci fu un’altra ultima volta.

Louis aggiunge che
ci fu un’ulteriore ultima volta
della penultima volta.

Allora Louis si chiese
che senso avesse l’eternità.




*


Louis si innamorò
di una badante russa.
Ma non mi innamorai, disse Louis.
L’ho vista sulla panchina
leggere Gor’kij e ho pensato
che il futuro può essere una occorrenza
un bisogno – disse Louis
del presente.




*


A proposito di nomi
Louis era convinto
che Alfredo, Vincenzo, Gennaro
avessero il nome degli Alfredi
Vincenzi, Gennari.

Louis me lo disse perplesso:
una sua amante di nome Aurora
fini con è subito sera.
Poi Louis si convinse
che tutto è coerenza:
un verso come il nome
giustifica la poesia.




*

  
Louis mi disse ma non disse niente.
Louis si spostò in avanti
io rimasi alla ringhiera come se lui
si stesse guardando di spalle. Poi Louis
mi offrì una sigaretta.
Per favore non muoverti da qui
bada tu al mare – mi disse Louis
io mi devo occupare del silenzio
di chi conosce il canto delle sirene.

Positano, Il San Pietro
4 ottobre 2017.

(Credo si pensi per baluginii di azioni.
Me ne accorgo dopo che ho scritto
senza scriverti. La scrittura a me mia,
intimamente diretta a te, alla lettura
mi fa spettatore di un inatteso replay
senza ricordare il dettato cui mi aveva sottoposto
una sconosciuta volontà

di tue gambe le tue
con la conseguenza dei seni quel neo
isola mattutina nell’arcipelago della schiena.

Credo di pensarti impiegando un tempo intervallo.
Che anziché situarsi tra due tempi, come
tra un primo e secondo atto
in cui l’intervallo è il presente di sé, qui invece
la pausa coagula tutto in un pretesto di eventi mancanti:

una febbrilità nella voce, due polpastrelli
alla circonferenza oblubinata di un orecchio
il dorso della mano sul pelo dell’acqua e
grana la pelle all’ingresso dei glutei.

Un tempo insomma simile all’attimo
tra lo squillo e il pronto. Dove la sospensione
predomina e d’improvviso persiste alla voce,
di un qualsiasi Mi manchi
dal telefono giungesse o giungerebbe
...)




*

Louis quando si innamorava
era un disastro.
Non che lo dica io, veniva
affermato da Louis stesso
con vari esempi di scritture
del tipo – mi fece leggere Louis

Io. Tu. Noi.
Noi. Tu. Io.
Dove tu dove io
non so.




*

Louis alla fine Louis
fotografava mosche
Louis non che fotografasse mosche
ma, come dire, Louis
fotografava mosche, Vedi?
mi disse Louis
mostrando la foto di una pagina
volevo adagiarmi sul suo corpo,
i capelli le labbra
ricordare dalle dita ai piedi,
e una mosca 
si è posata sul suo corpo.











mercoledì 9 maggio 2018

Lucianna Argentino : Sei poesie da "Le stanze inquiete" (La Vita Felice, 2016)






                   (quasi una prefazione)


Non è facile scrivere poesie. E’ facile semmai dirsi poeti se sia poesia vera poi chi lo sa che già dire cos’è poesia non è questione da poco. Eppure mi appassiona la vita e lascio che le cose mi rovistino lo sguardo e l’anima anche in questo bar di periferia dove assieme al caffè bevo le parole di un poeta morto in un gulag vicino Vladivostok quasi cinque lustri prima che io nascessi che tutto questo fosse che ormai di anni da quella data incerta ne sono passati quasi settanta ma ancora mi parla ancora mi dice sopra il vocio del bar sopra il vocio del mondo. Ma cosa avremo noi da dire a coloro che verranno se è già difficile intendersi parlando figuriamoci poi dirlo in poesia come tento io che non sono laureata e non insegno ma imparo imparo molto anche se di noi mi passa davanti quanto finisce nelle fogne ma pure tanti occhi tante storie perché magari ecco so ascoltare d’altra parte se non sapessi ascoltare che poeta sarei? Eppure temo che tutto in noi passi e scorra via ma devo credere che qualcosa resti e si fermi e sia seme ma poi mi dico pure che credevo che il dolore rendesse migliori e invece no perché il dolore a volte sta tra noi e il mondo come uno scudo e non come un abbraccio. Né credo che la poesia deve tirare giù dio perché dio ce l’ha già dentro semmai deve tirare su gli uomini sollevargli il mento e alitargli nelle narici parole ancora calde di vita fragranti di verità che poesia certo non è solo un fatto di metrica e la libertà del verso è condizionata perché non basta andare a capo. A capo di che poi se siamo in un tempo senza capo né coda a capo di me stessa almeno anche se ho una biografia stanziale ma fitta fitta di anime e di corpi e dunque nomade nell’essenza e allora scrivo. Scrivo perché poesia è la casa e la strada che ad essa mi conduce.


(settembre ottobre 2005)
Lucianna Argentino


        


 ***



Sto qui senza vocazione, ma ogni giorno rispondo,
ogni giorno, pellegrina dell’umano, vado di volto in volto,
piegata al sì dagli occhi e quando l’anima stanca
cede al disamore li faccio tornare bambini,
li riconsegno all’infanzia o a Dio,
così mi stanno dentro per amore e non per dovere.


***


Ha un senso vivere e lavorare
se una bambina mi guarda a lungo
e poi mi dice sei bella
e alla sua voce io di lei mi accorgo
e del suo sguardo fermo su me assente
e sanata risalgo al mio presente.
E le sorrido pure se so che non è bello
il mio viso stanco, annoiato
e a disagio per il mio scoperto esilio
per quell’asilo in me la benedico,
per i suoi occhi patria al mio foglio là in apnea
e all’inchiostro calmo che spero sia tempesta.


***


Pina un metro e cinquanta di acciacchi
mi dà monete dal calore buono
e un po’ rassegnato come il suo sguardo
velato di pianto nel raccontarmi che il marito,
malato da tempo, l’ha svegliata in piena notte
e le ha detto Pina, Alberto se ne va…
E se ne è andato, come ce ne andiamo tutti,
già distanti gli uni dagli altri per certi invalicabili silenzi.


***


Franca mi confida che il figlio ha dei problemi.
E’ timido, chiarisce e candidamente aggiunge
ma mica c’è nato sai, c’è diventato,
a voler dire che lei l’ha fatto sano 
e poi chissà  cosa l’ha guastato.
Ma forse è il nascere a guastarci,
quel giungere  - da dove? - quell’essere in fieri,
che fa di noi dei diventati.


***


Maria è buona. Maria ha la saggia semplicità delle prede.
E' umile Maria e cammina lungo una strada
già tracciata perché s'è gettata indietro,
perché abita una solitudine nubile
ma sa che non è per quella che è nata.
E si chiede per cosa allora,
per quale chiamata se erroneamente nella sua bocca
la dittatura del silenzio si fa preziosa colatura.


***


E in ultimo ci sono io,
esercitata al bene e alla pazienza,
io con la mia vita stretta stretta,
con i miei tanti nomi,
io che osservo assediata
da centinaia d’occhi,
che nella speranza allevo parole;
io con i miei pensieri frantumati,
mandati a capo come una cattiva poesia.
Qui ogni minuto che scorre ha un volto diverso,
una diversa cifra, grani di un immenso rosario:
ognuno con la sua muta preghiera
o la sua muta bestemmia,
che poi è lo stesso se crediamo
ci sia un dio ad ascoltare.












domenica 6 maggio 2018

* LA MAMADRE - Pablo Neruda







La mamadre, ecco che arriva
con zoccoli di legno. Ieri
soffiò il vento del polo, si sfondarono
i tetti, crollarono
i muri e i ponti,
l’intera notte ringhiò coi suoi puma,
ed ora, nel mattino
del sole freddo, arriva
mia mamadre, signora
Trinidad Marverde,
dolce come la timida freschezza
del sole delle terre tempestose,
lanternina
minuta che si spegne
e si riaccende
perché tutti distinguano il sentiero.

Oh, dolce mamadre
- mai ho potuto
dire matrigna -,
la mia bocca trema a definirti,
perché appena
fui in grado di capire
vidi la bontà vestita di poveri stracci scuri,
la santità più utile:
quella della farina e dell’acqua,
e questo fosti: la vita ti fece pane
e lì ti consumammo
nei lunghi inverni desolati
con la pioggia che grondava
dentro la casa
e la tua ubiqua umiltà
che sgranava
l’aspro
cereale della miseria
come se tu andassi
spartendo
un fiume di diamanti.

Ahi, mamma, come avrei potuto
vivere senza ricordarti
ad ogni mio istante?
Non è possibile. Io porto
il tuo Marverde nel mio sangue,
il cognome
del pane spartito,
di quelle
dolci mani
che ritagliarono da un sacco di farina
le brachette della mia infanzia,
di lei che cucinò, stirò, lavò,
seminò, calmò la febbre,
e, quando ebbe fatto tutto
e ormai potevo
reggermi in piedi saldamente,
si ritirò, cortese, schiva,
nella piccola bara
dove rimase in ozio per la prima volta
sotto la dura pioggia di Temuco.






* Il poeta aveva appena un mese di vita quando sua madre, doña Rosa Basoalto, morì di tubercolosi.
“Mio padre si era sposato in seconde nozze con doñaTrinidad Candia Marverde, mia matrigna. Mi sembra incredibile dare questo nome all’angelo tutelare della mia infanzia. Era diligente e dolce, aveva un campagnolo senso dell’umorismo, una bontà attiva e infaticabile. Appena arrivava mio padre, lei si trasformava solo in un’ombra soave come tutte le donne di quel tempo e di quel luogo”.
La matrigna (madrastra) viene chiamata da Neruda con l’affettuoso neologismo di “mamadre”, che arricchisce la connotazione di “madre” con quella di “mamà” (mamma) e di “mamar” (succhiare il latte). Temuco è la piovosa città del Sud dove Neruda trascorse l’infanzia e l’adolescenza.





da: Pablo Neruda POESIE (1924-1964)
Fabbri Editori, 1997
Introduzione, scelta, traduzione e note di Roberto Paoli