Ed. Passigli
Poesia 2011
L’opera
nasce dalle macerie di un “diluvio” personale storicizzato nella dimensione
spazio-temporale, quale atto di dolore
estremo: il dolore morale dell’uomo che sopravvive alla propria carne.
Questo
poemetto, in misura crescente rispetto ai due che lo precedono, è come un mare; ogni tentativo di definizione
appare riduttivo al pari di un bicchiere che non potrebbe che contenerne una
parte.
D’altronde
già nel titolo si avverte tale vastità: l’acqua è l’elemento primario della
vita, il nutrimento necessario alla sua nascita e sopravvivenza, è simbolo
sacro di purificazione, ma anche sostanza che separa, pur collegandole fra
loro, due sponde.
E’ una nuova
Wanderung, quella che Daniele Cavicchia intraprende, e al contempo un Esodo dal
luogo inospitale che ora la Terra è, pervasa di un’assenza, verso un altrove di
luce che ospita l’essenza della figlia Micol, nella quale già Mario Luzi, nel
primo poemetto “La malinconia delle balene”, ebbe ragione di ravvisare i tratti
di una novella Beatrice.
Ora Micol è
custode della verità, “signora
dell’acqua” , da figlia è diventata madre di coloro che l’hanno generata e
parla di sé con altra voce. Una voce che già, seppure sommessamente, si era
annunciata nel secondo poemetto “Dal libro di Micol”, quando rivelava: “-Non dello spazio lei è figlia/ma del tempo
che non misura,/vuoto eppure pieno/vero o solo inganno.”
Il lettore
viene immediatamente sedotto da questa voce e condotto nel viaggio tra realtà e visione, attraverso lo
spazio e il tempo, in cerca del guado che conduca a ri-sentire e ri-conoscere
Micol, non più creatura tangibile ma
spirito ineffabile, essente in una dimensione altra .
Il narrato
fluisce con il ritmo salmodiante che è proprio della preghiera, si eleva in un
canto a due voci di rara intensità lirica che zampilla sin dall’esergo
da versi dalle sonorità cristalline:
“Lei dorme, mi dice la signora dell’acqua,
dorme tra fragole e mirtilli
nel bosco in germoglio,
dorme nella grazia che l’avvolge.
Ora conosce tutti i nomi
e la voce che governa l’universo;
segui il fiume verso Est,
fino all’ultimo castagno
e lì la troverai nella carezza
dell’erba;
non destarla, non è solo un ricordo.
Ha un sorriso sulle labbra
che parla dell’infinito
e di un viaggio che non puoi
indovinare
ascolta, è lei, anche se vedrai solo
luce.”
Laddove è il
padre ad avere voce, talvolta la parola poetica si fa supplica, tal altra mea
culpa, disperazione, lamento umano inconsolabile:
“Io sono la
cosa che lo spirito non ha visitato,
quello che
la voce dell’universo non ha chiamato,
l’intruso
che spia, colui che non progetta,
sono l’attesa
che non verrà, il giorno già trascorso,
il figlio
che nessuna madre rivendica.
Quello che
non si può spiegare sarà sempre altrove,
sono il caso
della storia che manca,
quello che
aspetta non sapendo cosa,
la domanda
non formulata,
colui che
non scriverà mai qualcosa
che
sopravviva al suo destino.”
Tanto umano
dolore converge in un dettato poetico così sublime da indurre a un pianto di
autentica compassione e condivisione di uno smarrimento nel quale ci
riconosciamo con tutta la nostra fragilità e i nostri dubbi, in quanto, nel
corso dell’esistenza
“si è sempre
nel mezzo indecisi se credere o rinnegare,
e questo
mentre l’alba si rinnova
e le maree
ubbidiscono alla luna,
mentre sulla
pelle si annunciano macchie scure
e i capelli
ormai bianchi cadono sulle spalle.
Saremo
rughe, vene, e inutili carezze.”
Nell’intimo
dialogo tra padre e figlia i ruoli s’invertono, l’amore della figlia si riversa
sul dolore paterno a consolarlo, lo redarguisce, lo rassicura che lei ora
riposa nella grazia e che le sue ferite sono state guarite.
Il lessico
si sfronda per assumere i significati
tanto limpidi quanto oscuri del linguaggio profetico:
“Nell’attesa
del distacco,
in quella
notte annunciata
quando la
solitudine si faceva compagnia,
un
singhiozzo aveva spezzato la roccia
nell’illusione
di poter dividere il dolore,
una parte
aveva deciso di essere lapide
l’altra di
sfarinare tra le acque in subbuglio.
Lei è più grande della sua storia,
ammonisce la
signora dell’acqua,
e dorme nella grazia che l’avvolge.
Il giorno che sarà svegliata
ti cercherà tra le rovine dell’inizio
e sarà di luce come un cielo
spalancato.
Ma ormai la
roccia era scomposta
e la voce
incapace di ricomporla,
ciò che era
stato apparteneva al passato
che nel suo
gelido contenuto
custodisce
la trama dei ricordi.
Di ciò che
era rimane solo una domanda.
Tu sei oltre eppure prigioniero
lei è libera e dorme nella grazia che
l’avvolge.
Eviti la perfezione dell’attesa
ingannando ciò che resta; stolto,
rinnega quello che alimenta il dolore
trattieni il dono del suo sguardo,
lei in te, in questa assenza che vi
unisce.”
Ma l’umano è
troppo umano per comprendere, per poter scindere l’amore dal dolore
dell’assenza, non può, non è capace di obbedire, troppe sono le domande alle
quali non trova risposta.
“In disparte
l’imputato mescola
il colore
delle foglie triturate
pensa di
disegnare un mondo nuovo
che contenga
più cielo.
L’imputato
sa che non esiste
solitudine
più grande
quando la
foglia marcisce
e il
miracolo viene a mancare.”
L’uomo resta
confinato nel suo limite temporale. “La condizione”, come afferma Sergio Givone
nella prefazione al volume, “è quella di chi si dispone ad ascoltare il
silenzio. Ma senza la speranza di poterlo mai decifrare”. Non resta che
l’attesa dell’altro Tempo, quello in cui tutto sarà finalmente luce.
Maria Grazia
Di Biagio
Opere
citate:
La
malinconia delle balene – Passigli 2004
Dal libro di
Micol – Passigli 2008
già su: La Presenza di Erato
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