La solitudine del fuoco
Passigli, 2016
Un libro deve frugare nelle ferite,
anzi deve
provocarle.
Un libro
deve essere un pericolo.
(E. Cioran)
Quando scegliamo di leggere un libro,
ci disponiamo ad accettare un rischio.
Il rischio di entrare in un mondo che
non conosciamo, che è il mondo interiore di un altro.
Qualcosa che ci potrebbe
destabilizzare, mettere in discussione le nostre certezze, farci sorgere dei
dubbi. Ed è proprio
questo che accade “entrando” nell’universo poetico di Daniele
Cavicchia: si
entra in una dimensione altra.
Della sua opera hanno scritto in
molti: critici, poeti, filosofi.
Tutti sono concordi nel definire la
poesia di Cavicchia onirica e visionaria, in
quanto i fatti si svolgono nella
dimensione del sogno, ma in un sogno vigile, di quelli in cui
chi sogna percepisce l’assurdo e
cerca tuttavia di carpirne il senso.
La sua è, come scrisse Mario Luzi, “una
scrittura appena un po’ delirante ma inoppugnabile nel suo
proprio
ordine". Non riconducibile a modelli antecedenti.
"Una scrittura enigmatica, enigmatica
essendo non la modalità ma l’essenza”
Alcuni l’hanno definita filosofica,
altri sapienziale.
Di certo vi è che il poeta, laddove è
filosofo, lo è in senso socratico, in quanto sa di non sapere.
Meglio dice in proposito Sergio
Givone: “Il concetto, la filosofia, sono la sostanza stessa
di questa poesia, sono tutt’uno con
essa e quindi il lettore non viene messo di fronte a un
enigma da sciogliere, bensì a un
viaggio da intraprendere, una ricerca da compiere.
Viaggio senza fine, ricerca
inesauribile”.
Giudizio che conforta la prima
sensazione che ebbi leggendo la poesia di Cavicchia
E’ una nuova Wanderung, quella che
Daniele Cavicchia intraprende, il Wanderer essendo un
avventuriero dello spirito,
un essere che va alla ricerca di se stesso, o meglio, dell’indefinibile,
di ciò
che nel profondo dell’animo sappiamo esistere, ma che sfugge ad ogni
analisi della ragione.
Chi scrive non ha alcuna pretesa di
rivelazione, non è custode di alcuna verità ma
assiste agli eventi con chi legge, ne
partecipa e condivide lo spaesamento, la precarietà
dell’esistere.
L’unico strumento che il poeta
possiede è la parola e con essa tenta un dialogo
che si fa preghiera, con la consapevolezza che La parola è un
mezzo limitato, non arriva a
raggiungere l’altra
sapienza.
Maria Grazia Di Biagio
(Dagli appunti per una presentazione.
Libreria tempo Libero,Teramo 2017)
Libreria tempo Libero,Teramo 2017)
LA SOLITUDINE DEL FUOCO
I
Quando
la vidi la prima volta
l’angelo
aveva perso un guanto
lei
pensò fosse il suo
io
di essere nella trasparenza dell’abisso
poi
lei sorrise come chi ha occhi
troppo
azzurri per scavalcare il cielo
e
spingermi nell’ostinato inchiostro
che
a malapena contiene la storia che mi illude
La
pelle levigata profumava di sacro
attingeva
energia dall’amore
che
ognuno le donava, io avevo
poche
parole e in quelle annegavo
Se non sai adesso cos’è l’amore,
disse
l’angelo, sarai sempre lontano da lei
io
lo guardai come si guarda un fiore
che
non può esistere
e se
solo esistesse non sarebbe un fiore
ma
un mondo di idee dal sapore di eterno
Dimmi allora di questo tempo e di me
che tento di esistere attraverso lei
L’amore è solo il segreto della follia
che l’assolve, immagina alberi sulle
nuvole
acqua nel deserto dove le anime sospirano,
l’amore è un cristallo che racchiude il
creato
L’angelo
aveva ritrovato il guanto
lei
aveva perso anche l’altro,
la
mia mano accarezzava la sua
o
forse era la sua a farlo
ma
nulla veniva reclamato
ciò
che accade nel segreto della mente
la
mente ignora
come
quegli occhi troppo azzurri
che
guardavano dove lei non voleva.
IV
Il
quarto giorno il pullman era affollato
ma
lei mancava. Anche la sua stanza
era
vuota e spenta la luce. L’angelo
leggeva
l’altra sapienza nel libro segreto
Decisi
di ingannare il tempo
e
quindi me stesso, concentrando
il
ricordo sulla schiena di una bionda
e
sulle curve appena sotto
Sono questi i pilastri che reggono
il mondo? pensai, È dunque questo
che giustifica l’esistenza? Oppure
gli occhi non sanno più guardare?
Il
quarto giorno lei non c’era
se
non come inizio di un discorso,
l’attesi
e fui una memoria sospesa
al
crocevia del peccato.
X
Quando
la rividi la quinta volta
aveva
una cadenza senza peso
la
polvere di un lungo viaggio
appena
l’inizio di un discorso.
Io sono la storia che potevo essere, disse,
l’ultima goccia del diluvio
il saluto di chi è appena risorto.
Eppure non sono io quello che aspetti
ma l’altro che ripete la propria storia
mentre la fine sta accadendo.
Tu, invece, chiedi l’inizio, un numero
perfetto che diventi l’annuncio
di una nuova promessa, tu
all’interno della tua prigione.
Sono il limite alla tua parola,
la forma incompiuta che non puoi
ricomporre, l’assenza che ti circonda.
Ogni cosa è creata fallace
eppure ripetibile, ogni gesto compiuto
e riconosciuto, ogni promessa giurata
e disattesa. Ascolta, siamo gli stessi
di un mondo che ci ha preceduto,
complici di un progetto accennato,
distratta progenie incapace di mutare
l’accadere, occupati come siamo
nel curare l’alchimia del dimenticare.
Siamo gli avi di noi stessi.
XII
Quando
verrai grida il mio nome, gridalo,
potrei
essere all’interno di una frase
in
forma di virgola o di apostrofo,
forse
solo come punto di fondo pagina.
Grida
il mio nome, gridalo
o
quello che in quel tempo avrò
Non
chiedo altro
posso
solo aspettare la tua venuta
nella
balbuzie delle ipotesi.
Perdona,
tu che l’angelo accompagna
e
prega nella stanza vuota
che
di te è piena
Quando
verrai nel segreto del tuo nome
sarò
un’orma nella tormenta
sfiderò
la bestia crudele
offrendo
il mio collo perché l’addenti
quando
verrai, mi dirai chi potevo essere
e
non quello che sono stato.
XIV
Ora
il suo sorriso permea il mondo
nel
silenzio degli alberi
nella
quiete dell’erba e dei ruscelli
nella
quiete dove tutto accade
non
esiste parola
che
possa definirlo
L’angelo
conosce quel sorriso
che
rivela l’altra sapienza
e
che lui è assorto
mentre
sfoglia il libro segreto
accanto
ad un fuoco
che
brucia la propria solitudine.
XVIII
Cerco
di tacere quello che non so dire,
la
parola muta e discorde
del
ricordo trattenuto
non
posso se non nella tua lingua che ignoro.
a
pensarci, nel tempo,
il
dolore rimane uguale
riesce
a dividersi dall’amore
e
fissare le immagini
su
ogni pagina che sei costretto a leggere;
allora
capisci che è tempo di tacere
perché
anche i colori
sono
destinati a sbiadire
La
settima volta che la rividi fu in un sogno,
accarezzava
l’erba che copriva
le
cicatrici del mondo e mi suggeriva
una
preghiera che solo in paradiso
poteva
essere udita,
la
guardai come un segreto da custodire
come
se nulla fosse accaduto
o se
tutto potesse essere cancellato
da
un altro dio
che
per punire la mia intrusione
usasse
l’altra pietà
L’angelo
volse le spalle,
lei
calzò i guanti perché non vedessi.
Ogni cosa è ordine, udii,
il fiore appassisce e rinasce,
la foglia cade
ma poi l’albero si riveste,
così l’universo
ripete che ogni cosa va e poi ritorna.
Quindi non tutto è già stato?, chiesi
Ogni cosa sarà, rispose la voce,
quando ogni cosa sarà un’unica cosa.
XIX
Quando
la rividi l’ottava volta
ero
distante dalla sua carezza
in
uno spazio definito
capace
di una sola lingua
e
lontano dalla possibile armonia
La
poesia è un discorso
che
viene a sorprenderti dal futuro
arriva
e tu non la riconosci
poi
ti disseta e stordisce
alla
fine ti disconosce
Non
offenderti,
sei
solo un mezzo, ti chiede
di
ordinare i frammenti
nelle
case giuste
Strappare
le parole di troppo
dolore
e tu bari e menti,
manipoli,
infine accetti
la
visita che ti affanna.
LA PENNA
I
La
penna diventa la parola del silenzio
poche
volte penetra il tuo:
noi
sappiamo di un mondo finito,
il
planare dei gabbiani sulle onde,
la
musica dell’acqua increspata,
sappiamo
ciò che vediamo,
a
volte il perfetto nell’imperfetto,
la
figura nella cenere che resta.
Quando
penso a lei
vedo
la grazia e il perdono
il
perfetto nell’imperfetto;
sei
anche Tu
la
Tua imperfezione?
Dimmi,
siamo oltre noi?
DETTATO
I
L’inizio
Lei
ammalò di pace
quando
perdonò il male;
l’arancio
si impose e così il verde
poi
più nulla durò
solo
un lamento nella lacrima di crosta
Non
la vidi ancora
o
forse avvenne in un sorriso
ma
non potevo chiedere chi fosse
se
già io stesso non la riconoscevo
e
lei passò come un profumo di siepe
Poi
fu l’inverno biancolucido
di
gocce e brividi
fu
lo sguardo strettociglia
forse
un gesto a scompigliare
l’ordine
stabilito
Poi
ammalai io nel mancato perdono
e
guarii e ancora ammalai
e
c’era lei e non c’era
poi
volli che tutto si compisse
ma
senza parole e un solo silenzio
E
vidi chi mancava e chi restava
i
mancanti erano tornati
chi
prima era invece ormai andato
e
divenni sordo e cieco
e da
subito fui iniziato ai misteri
Allora
lei venne e sorrise
la
sua veste emanava un profumo di siepe
ed
era sorpresa dalla mia incertezza
e
ancora ammalai di un male invisibile
lei
mi tese le mani e mi insegnò la leggerezza
Ciò
che dopo avvenne
è
nelle pagine da scrivere.
III
La parola
La
parola è caduta
nella
memoria della zolla
risorge
dal tuo sguardo
quando
mi sorveglia
Ogni
momento è una fine
ogni
nome una lapide
siamo
nomi su lapidi
parole
smozzicate nei ricordi
Dov’è
il tripudio dello stelo?
Dove
il suo inizio?
Tu,
chiedo, sei stata o da venire?
Dov’è
il roseto, la tua promessa?
La
parola caduta
era
una promessa
la
promessa divenne parola
la
parola un silenzio udito.
LA MIA SPOSA
III
Parliamo
poco di lei
che
volle chiamare Micol
temendo
di allontanarne il ricordo
evocarla
potrebbe imprigionarci
in
una realtà che non ci sopporta
eppure
è nell’altro cielo il segreto del volo
e in
questo andare e tornare
nel
dolore del corpo
il
ricordo di essere ancora.
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