giovedì 28 dicembre 2017

La solitudine del fuoco - Daniele Cavicchia -








La solitudine del fuoco
Passigli, 2016












 Un libro deve frugare nelle ferite, 
anzi deve provocarle.
Un libro deve essere un pericolo.

 (E. Cioran)




Quando scegliamo di leggere un libro, ci disponiamo ad accettare un rischio.
Il rischio di entrare in un mondo che non conosciamo, che è il mondo interiore di un altro. 
Qualcosa che ci potrebbe destabilizzare, mettere in discussione le nostre certezze, farci sorgere dei 
dubbi. Ed è proprio questo che accade “entrando” nell’universo poetico di Daniele Cavicchia: si 
entra in una dimensione altra.
Della sua opera hanno scritto in molti: critici, poeti, filosofi.
Tutti sono concordi nel definire la poesia di Cavicchia onirica e visionaria, in
quanto i fatti si svolgono nella dimensione del sogno, ma in un sogno vigile, di quelli in cui
chi sogna percepisce l’assurdo e cerca tuttavia di carpirne il senso.
La sua è, come scrisse Mario Luzi, “una scrittura appena un po’ delirante ma inoppugnabile nel suo 
proprio ordine". Non riconducibile a modelli antecedenti.
"Una scrittura enigmatica, enigmatica essendo non la modalità ma l’essenza”

Alcuni l’hanno definita filosofica, altri sapienziale.
Di certo vi è che il poeta, laddove è filosofo, lo è in senso socratico, in quanto sa di non sapere.
Meglio dice in proposito Sergio Givone: “Il concetto, la filosofia, sono la sostanza stessa
di questa poesia, sono tutt’uno con essa e quindi il lettore non viene messo di fronte a un
enigma da sciogliere, bensì a un viaggio da intraprendere, una ricerca da compiere.
Viaggio senza fine, ricerca inesauribile”.
Giudizio che conforta la prima sensazione che ebbi leggendo la poesia di Cavicchia
E’ una nuova Wanderung, quella che Daniele Cavicchia intraprende, il Wanderer essendo un 
avventuriero dello spirito, un essere che va alla ricerca di se stesso, o meglio, dell’indefinibile, di ciò 
che nel profondo dell’animo sappiamo esistere, ma che sfugge ad ogni analisi della ragione.

Chi scrive non ha alcuna pretesa di rivelazione, non è custode di alcuna verità ma
assiste agli eventi con chi legge, ne partecipa e condivide lo spaesamento, la precarietà
dell’esistere. 
L’unico strumento che il poeta possiede è la parola e con essa tenta un dialogo
che si fa preghiera, con la consapevolezza che La parola è un mezzo limitato, non arriva a 
raggiungere l’altra sapienza.


Maria Grazia Di Biagio


(Dagli appunti per una presentazione. 
Libreria tempo Libero,Teramo 2017)

LA SOLITUDINE DEL FUOCO


 I


Quando la vidi la prima volta
l’angelo aveva perso un guanto
lei pensò fosse il suo
io di essere nella trasparenza dell’abisso

poi lei sorrise come chi ha occhi
troppo azzurri per scavalcare il cielo
e spingermi nell’ostinato inchiostro
che a malapena contiene la storia che mi illude

La pelle levigata profumava di sacro
attingeva energia dall’amore
che ognuno le donava, io avevo
poche parole e in quelle annegavo

Se non sai adesso cos’è l’amore,
disse l’angelo, sarai sempre lontano da lei
io lo guardai come si guarda un fiore
che non può esistere

e se solo esistesse non sarebbe un fiore
ma un mondo di idee dal sapore di eterno
Dimmi allora di questo tempo e di me
che tento di esistere attraverso lei

L’amore è solo il segreto della follia
che l’assolve, immagina alberi sulle nuvole
acqua nel deserto dove le anime sospirano,
l’amore è un cristallo che racchiude il creato

L’angelo aveva ritrovato il guanto
lei aveva perso anche l’altro,
la mia mano accarezzava la sua
o forse era la sua a farlo
ma nulla veniva reclamato

ciò che accade nel segreto della mente
la mente ignora
come quegli occhi troppo azzurri
che guardavano dove lei non voleva.





IV


Il quarto giorno il pullman era affollato
ma lei mancava. Anche la sua stanza
era vuota e spenta la luce. L’angelo
leggeva l’altra sapienza nel libro segreto

Decisi di ingannare il tempo
e quindi me stesso, concentrando
il ricordo sulla schiena di una bionda
e sulle curve appena sotto

Sono questi i pilastri che reggono
il mondo? pensai, È dunque questo
che giustifica l’esistenza? Oppure
gli occhi non sanno più guardare?

Il quarto giorno lei non c’era
se non come inizio di un discorso,
l’attesi e fui una memoria sospesa
al crocevia del peccato.


  


X

Quando la rividi la quinta volta
aveva una cadenza senza peso
la polvere di un lungo viaggio
appena l’inizio di un discorso.
Io sono la storia che potevo essere, disse,
l’ultima goccia del diluvio
il saluto di chi è appena risorto.
Eppure non sono io quello che aspetti
ma l’altro che ripete la propria storia
mentre la fine sta accadendo.
Tu, invece, chiedi l’inizio, un numero
perfetto che diventi l’annuncio
di una nuova promessa, tu
all’interno della tua prigione.

Sono il limite alla tua parola,
la forma incompiuta che non puoi
ricomporre, l’assenza che ti circonda.
Ogni cosa è creata fallace
eppure ripetibile, ogni gesto compiuto
e riconosciuto, ogni promessa giurata
e disattesa. Ascolta, siamo gli stessi
di un mondo che ci ha preceduto,
complici di un progetto accennato,
distratta progenie incapace di mutare
l’accadere, occupati come siamo
nel curare l’alchimia del dimenticare.
Siamo gli avi di noi stessi.




XII


Quando verrai grida il mio nome, gridalo,
potrei essere all’interno di una frase
in forma di virgola o di apostrofo,
forse solo come punto di fondo pagina.
Grida il mio nome, gridalo
o quello che in quel tempo avrò

Non chiedo altro
posso solo aspettare la tua venuta
nella balbuzie delle ipotesi.
Perdona, tu che l’angelo accompagna
e prega nella stanza vuota
che di te è piena

Quando verrai nel segreto del tuo nome
sarò un’orma nella tormenta
sfiderò la bestia crudele
offrendo il mio collo perché l’addenti
quando verrai, mi dirai chi potevo essere
e non quello che sono stato.





XIV


Ora il suo sorriso permea il mondo
nel silenzio degli alberi
nella quiete dell’erba e dei ruscelli
nella quiete dove tutto accade
non esiste parola
che possa definirlo

L’angelo conosce quel sorriso
che rivela l’altra sapienza
e che lui è assorto
mentre sfoglia il libro segreto
accanto ad un fuoco
che brucia la propria solitudine.




  
XVIII


Cerco di tacere quello che non so dire,
la parola muta e discorde
del ricordo trattenuto
non posso se non nella tua lingua che ignoro.
a pensarci, nel tempo,
il dolore rimane uguale
riesce a dividersi dall’amore
e fissare le immagini
su ogni pagina che sei costretto a leggere;
allora capisci che è tempo di tacere
perché anche i colori
sono destinati a sbiadire

La settima volta che la rividi fu in un sogno,
accarezzava l’erba che copriva
le cicatrici del mondo e mi suggeriva
una preghiera che solo in paradiso
poteva essere udita,
la guardai come un segreto da custodire
come se nulla fosse accaduto
o se tutto potesse essere cancellato
da un altro dio
che per punire la mia intrusione
usasse l’altra pietà

L’angelo volse le spalle,
lei calzò i guanti perché non vedessi.
Ogni cosa è ordine, udii,
il fiore appassisce e rinasce,
la foglia cade
ma poi l’albero si riveste,
così l’universo
ripete che ogni cosa va e poi ritorna.
Quindi non tutto è già stato?, chiesi
Ogni cosa sarà, rispose la voce,
quando ogni cosa sarà un’unica cosa.



  
XIX


Quando la rividi l’ottava volta
ero distante dalla sua carezza
in uno spazio definito
capace di una sola lingua
e lontano dalla possibile armonia

La poesia è un discorso
che viene a sorprenderti dal futuro
arriva e tu non la riconosci
poi ti disseta e stordisce
alla fine ti disconosce

Non offenderti,
sei solo un mezzo, ti chiede
di ordinare i frammenti
nelle case giuste

Strappare le parole di troppo
dolore e tu bari e menti,
manipoli, infine accetti
la visita che ti affanna.



   
LA PENNA


I

La penna diventa la parola del silenzio
poche volte penetra il tuo:
noi sappiamo di un mondo finito,
il planare dei gabbiani sulle onde,
la musica dell’acqua increspata,
sappiamo ciò che vediamo,
a volte il perfetto nell’imperfetto,
la figura nella cenere che resta.
Quando penso a lei
vedo la grazia e il perdono
il perfetto nell’imperfetto;
sei anche Tu
la Tua imperfezione?
Dimmi, siamo oltre noi?


  

  
DETTATO

I

L’inizio

Lei ammalò di pace
quando perdonò il male;
l’arancio si impose e così il verde
poi più nulla durò
solo un lamento nella lacrima di crosta

Non la vidi ancora
o forse avvenne in un sorriso
ma non potevo chiedere chi fosse
se già io stesso non la riconoscevo
e lei passò come un profumo di siepe

Poi fu l’inverno biancolucido
di gocce e brividi
fu lo sguardo strettociglia
forse un gesto a scompigliare
l’ordine stabilito

Poi ammalai io nel mancato perdono
e guarii e ancora ammalai
e c’era lei e non c’era
poi volli che tutto si compisse
ma senza parole e un solo silenzio

E vidi chi mancava e chi restava
i mancanti erano tornati
chi prima era invece ormai andato
e divenni sordo e cieco
e da subito fui iniziato ai misteri

Allora lei venne e sorrise
la sua veste emanava un profumo di siepe
ed era sorpresa dalla mia incertezza
e ancora ammalai di un male invisibile
lei mi tese le mani e mi insegnò la leggerezza

Ciò che dopo avvenne
è nelle pagine da scrivere.


  


III

La parola

La parola è caduta
nella memoria della zolla
risorge dal tuo sguardo
quando mi sorveglia

Ogni momento è una fine
ogni nome una lapide
siamo nomi su lapidi
parole smozzicate nei ricordi

Dov’è il tripudio dello stelo?
Dove il suo inizio?
Tu, chiedo, sei stata o da venire?
Dov’è il roseto, la tua promessa?

La parola caduta
era una promessa
la promessa divenne parola
la parola un silenzio udito.


  

LA MIA SPOSA

III

Parliamo poco di lei
che volle chiamare Micol
temendo di allontanarne il ricordo
evocarla potrebbe imprigionarci
in una realtà che non ci sopporta
eppure è nell’altro cielo il segreto del volo
e in questo andare e tornare
nel dolore del corpo
il ricordo di essere ancora.


















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