Ogni poeta si porta dentro un
buio luce che scruta scompiglia i vuoti dell’essere, interroga il silenzio e si
fa io nella storia, cosciente del proprio “inquieto andare” verso “una felicità
sia pur breve”, tra barlumi di eventi, flash memoriali e miserie del mondo. Nessuna
carezza giunge fino all’anima, cantava Adriano al suo dolce Antinoo, ma la
poesia, più vera di ogni vita, è carezza di fuggevoli immagini, tremule come farfalle.
La poesia non si spiega, si ascolta come uno spartito interiore e commuove come
un’opera d’arte.
La poesia, come l’amore, corrobora e rinnova di nuova linfa
l’essere, “è l’atto magico – secondo Borges – che si esercita con umiltà,
gratitudine e gioia”; ma si nutre di dubbi, di chiaroscuri di senso, in una
solitudine disarmante che corrode e sgomenta, scruta le maglie del tempo,
ondeggiando tra barlumi di luce e tragici eventi. E oscilla tra memorie e
durezza del presente, in cerca spasmodica dell’altro, una ricerca che A. M. Farabbi definisce “il morbo dell’altro”.
L’io poetante è come un bambino che
fruga emozioni lontano da volti di ombra, in un mondo senza sorrisi. La poesia
per E. Evtushenko è la finesse, la bellezza di un istante che dà voce a chi
non ha voce e che riconosce il trillo sonoro dell’infanzia, come un canto
di Béla Bartòk o la musica di Scriabin. Scrivere per scardinare l’assedio di un
vuoto ritorno, come un alveare cosmico che getta luce sul mondo. L’impatto
‘orchestrale’ è affidato a suoni liquidi, evanescenze, a timbri assonantici, a
forti opposizioni aggettivali, interrogativi pregnanti, neologismi, a un
costante ondeggiare tra senso e non senso, tra suono e segno, tra significato e
significante.
Talvolta le parole prendono vita come
mises en scène in un teatro semovente di ‘lemmi’ che mimano gesti, espressioni,
fonemi e vocali in continua metatesi / metamorfica, fino a raggiungere la Spannung
esistenziale, come nei versi di Alberto Bevilacqua in “Un duetto per voce
sola”. Ventaglio di temi e di parole, elenchi e suggerimenti che stuzzicano la
fantasia del lettore e che rendono il linguaggio sospeso in un’altalena
funambolica o nel doppio fondo di una scatola magica che asserisce e nega,
oscura e illumina percorsi ipergerminativi di senso.
In sottofondo, nel
cantuccio dell’anima, il canto cantilenato rigenerato dalla pregnanza
ossimorica di Franco Loi (“l’umbria
dentro il ciar”), poeta che scivola attraverso membrane del tempo con una
leggerezza senza tempo. Le sue immagini, come piani sequenza, sono illuminate
dal filo della memoria su esili profili di ragazze, su erbari agresti e il canto
dell’usignuolo, in una dimensione rarefatta dell’aria, un’aria impalpabile
leggera, che vanifica l’essenza della vita e la riempie di miracolo: l’uomo
sussurra con la fragranza di una ‘baguette alla soia’ il mistero, la bellezza delle
cose, e si diverte come un folletto a
stendere un velo di chiarore (el ciar)
sul mondo; la sua aria resta nella mano come una bolla evanescente, aria vuota
che spigola al tepore di uno sguardo. Aria per sognare. Aria per sorvolare sui
sentimenti universali, la vita la morte, la fragilità con bonaria ironia.
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