lunedì 22 gennaio 2018

Umberto Piersanti - "L'albero delle nebbie" letto da Grazia Di Lisio



   “L’albero delle nebbie”     
Einaudi, 2008

                                                       


UN CANTO COLORATO



Il ‘grande fiore’ del poeta marchigiano è come il ‘Sogno di un fiore di carta’ pasoliniano che dà luce al grigio plumbeo delle tristi esperienze della vita, e che s’innalza, con il suo grande stelo, sulle ombre della guerra, sul filo memoriale. Il gioco chiaroscurale che anima il suo mondo poetico, “sprovinglo” dell’inconscio, è animato sapientemente da una moviola interiore, in graduale dissolvenza di piani cromatici: la tavolozza insiste sul bianco, fino a stemperarsi in grigi di nebbie fonde, nere. Ma su questo mondo di paure ‘metanarrate’ risplende la bellezza di un fiore di foscoliana memoria che pulsa e accarezza, nell’attesa di un eterno ritorno, la solitudine amara, come in un sogno junghiano. Piersanti, il cantore delle Cesane, ci proietta in una musica di fango, in una nebbia di natura disumanata e, al tempo stesso, forte, viscerale, una natura ‘alter ego’ in cui confondersi, per dare significato al ‘nero silenzio’, all’ ‘aria nera’.  Anche il nero, un non colore, è ombra che evoca i dolci ricordi del Serafino pirandelliano. Il simbolismo che ne deriva è intenso e pregnante, connotato da un valore fonico, da una sonorità sinestetica dell’io vicina al mistero pascoliano, alla paura ancestrale del buio esistenziale. Altre volte, la gamma cromatica si disvela d’azzurri  (“I fiordalisi”) e in una ridente tavolozza pittorica, si colora di mito, in attesa di “un orto sospeso”, per adombrare l’ondosità  dell’esistenza, la sua sconcertante enigmaticità. Così le categorie spazio e tempo si confondono: il presente è passato e il passato è presente e la realtà si sublima in un canto colorato.
                                                                                                                         

  Grazia Di Lisio


Soffrono i favagelli



Soffrono i favagelli
sotto la terra,
premono contro il gelo
che li rinserra,
sembra l’inverno eterno,
la bianca neve s’è fatta
pietra grigia,
sporca
erbe e terra.

Come il verde chiarissimo
del grano,
che nei colli più bassi
verso il mare balugina
tra i rami, l’aria azzurra,
così l’anima attende primavera
sepolta sotto il gelo
dei dolori

e quel campo immenso
di giunchiglie, che attraverso
stretto alla mia sorella
per la mano,
in quel mattino rado e luminoso
rado forse più del tulipano
che in un tempo remoto
cresceva solo e acceso
giù per il fosso

c’era allora una dimora
luminosa,
dopo le nuove case
e le macerie
solo all’altra sorella
risparmiate

Marzo 2005




Nebbia



no, la nebbia non quella
di novembre tra i fossi
miei della Cesana
o fitta al Monte del Vescovo
sopra ceppi e cipressi,
restano punte verdi
e isole sospese
di quercelle, lì
si perdono le foglie,
s’alzano grida,
ma uno scotano rosso
la trapassa,
e t’appartiene,
t’appartiene il filare
che più non vedi

no, quella era una landa
desolata,
no, non era
cemento, neppure erba,
non le livide strade
presso il mare, lo scivolo
di pioggia e di catrame
e tu in cima
contorto e sospeso

lì era una contrada
forestiera, lontana
e forestiera come il tuo male,
livida forse meno
del catrame,
ma un male più tenace
lì s’addensa,
come nasce e t’afferra
non lo sai,
niente t’è familiare
in quella terra

e non eri fuggito
dalla mia mano,
quante volte l’hai fatto
per le strade che stanno
dietro il mare, tra le case
e l’erba recintata, inumidita
che nell’inverno fuma
tra i garage

no, quelle erano fughe
terminate dietro una pizzeria
o la fontana,
il cuore mi sobbalza,
ma ti ritrovo

e mentre mi rigiro
e non ho pace,
le palpebre non riesco
a disserrare,
e so che sei lontano,
il più lontano,
ma non sei corso via,
dentro quel fumo grigio
da sempre perso,
e ti chiamo e m’aggiro,
grido, dopo stanco,
m’appoggio al palo
e fermo

ma ti debbo Jacopo
ritrovare,
così mi alzo,
brancolo nella nebbia,
ti cerco ancora

Dicembre 2004.




Tra piante e nebbia



sempre con voi boschi
e le memorie, contro la fuga
orrida dei giorni?
sempre alle foglie attaccato,
a questi rami di scotano
arancioni per l’autunno?

No, non nei miei campi,
in una macchia immensa
siamo entrati, Jacopo
estranea alle memorie,
e la nebbia sale
su dal mare,
cancella il pungitopo,
il muschio verde,
grigia più del fungo
velenoso che lì cresce
e pende

e tu corri Jacopo
come sempre,
scortichi bracci e gambe
tra gli arbusti,
e la nebbia non curi,
l’erba bagnata e fredda,
gli spini aguzzi,
corri,
chiedi le patatine
come sempre

tu non conosci gli ostacoli
e memorie,
io non so quel tuo grido,
l’urlo che sale,
forse morde la vita,
forse il dolore

e ti raggiungo
e blocco, lì c’è il dirupo,
t’abbraccio e ti consolo,
anche le patatine ti prometto
usciti fuori
da questa nebbia fitta
e dalla selva

e la memoria torna alla stagione
così breve e perfetta
e luminosa,
a un’altra macchia
accesa dall’estate
alle tue cosce bionde
tra le acacie,
Laura dei miei vent’anni
Smisurati

Ora è la nebbia,
nera ogni foglia,
solo una bacca rossa,
non la conosco,
magari nasce solo in questa selva
d’una luce s’accende
fioca e tenace

Novembre 2004






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