"Come fosse giovedì"
Ed. Puntoacapo, 2015
La muffa del mio male
Di ‘notti puntate alla
gola’ sotto ali di corvo e di ombre in agguato tra le paure dell’oggi è intriso
il poetare-narrato di Michele Paoletti, un encomiabile canto d’esordio che
squarcia il sipario sul dolore esistenziale. Come folletto della disarmonia, si
diverte a scalfire lamelle di senso con metafore e cifra stilistica pregnanti,
offrendo al lettore spigoli vivi e angoli non smussati dell’io. Un canto
graffiante. Come equilibrista in bilico sul vivere, Paoletti dipinge il ‘male
ottuso’ con immagini forti, in cerca di geometrie lineari dell’essere. Un gioco
osmotico di senso tra il sé e le cose che si caricano di assonanze, consonanze,
iterazioni e allitterazioni, come se nella complessità fonico-retorica il poeta
volesse imprigionare lo stridio dell’essenza. I campi semantici seguono linee oblique
di pensiero, angosce pregresse inghiottite dentro ‘un sarcofago di gesso’.
Un monologare continuo di grumi, cordoni di senso che si combinano in forme talora stranianti come sull’orlo di un palcoscenico. In cerca di catarsi. Perché il giovane poeta, nella ricerca ossessiva di sé, ha coscienza della finitudine, ma si dà ragione del vuoto e della assenza nell’ansia del perdono!
Un monologare continuo di grumi, cordoni di senso che si combinano in forme talora stranianti come sull’orlo di un palcoscenico. In cerca di catarsi. Perché il giovane poeta, nella ricerca ossessiva di sé, ha coscienza della finitudine, ma si dà ragione del vuoto e della assenza nell’ansia del perdono!
Grazia Di Lisio
(Teramo, 30 giugno 2015)
Ho fiori gialli nelle mani
fiori ai bordi delle mie strade scorticate
fiori appesi nei quadri
schiacciati tra i mattoni delle mie solitudini
storte dietro i sipari
fiori da ricevere senza biglietto alcuno
mentre la luna si accartoccia gialla
e non ho parti di me da offrire
o segreti da incatenare ad una pietra.
Accidentale lo sparo nella nebbia
il sudore nel palmo della mano
mentre la rabbia incrinava i bicchieri
come se dall’orlo si potesse solo precipitare
con un urlo appuntito
che scalpella il gesso e scava la matrice.
Eppure la commedia sembrava terminata
con lo sfarzo degli applausi a scena aperta
quando mi accorsi della troppa cipria
del cerone steso male nel buio intransigente
e la parola perse l’armonia dell’articolazione
scricchiolando
al centro del rosso sacro del teatro.
Stesso sipario anche questa sera,
mentre inseguo un’ombra
ghiaccia sulla ghiaia
quando le ore frullano via
al primo sparo dell’alba.
Ho chiuso le imposte
con un segmento di fil di ferro
attorcigliato da angosce
sussurrate allo specchio
e cerco di mettere in salvo i superstiti
raccogliendoli dal tappeto
che avevo steso per accoglierti.
Sono il tiranno
il faro sul soffitto
la botola sul palco
l’attore, lo sconfitto.
Quando il bene aveva un sarcofago di gesso
le mele cadute non conoscevano
il rosso che le imbrattava
e le scarpe che barattavo
riconoscevano la catena del padrone.
Il dolore abbaiò tre volte
schiacciò le mele torcendosi le dita,
la cena era una candela
e si consumava fredda.
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