martedì 27 febbraio 2018

Massimo Pamio




Massimo Pamio, poeta e saggista, è direttore del Museo della Lettera d'Amore, museo unico al mondo che è ospitato nel Palazzo Valignani di Torrevecchia Teatina ed è direttore editoriale di Edizioni Mondo Nuovo. Cavaliere dell’Ordine “Al Merito della Repubblica Italiana”, per meriti culturali. Studioso di letteratura moderna, ha pubblicato in volume numerose opere: Il nome della rosa (1987), Nell’appartamento confuso dei giorni (1999), Bucanotte (2008) Luceversa (2009), Amormorio (2010), di poesia; diverse monografie su scrittori contemporanei: Lo statuto dei labirinti (Introduzione alla poesia di Domenico Cara, 1987), Il filo lungo della parola (Contributi per una lettura di Vito Moretti, 1991), Ritmi del lontano presente (Introduzione alla lettura dell’opera di Antonio Spagnuolo, 1991), Parola etica (La poesia di Cesare Ruffato, 1999). Ha curato numerose antologie letterarie: Un parco per i sogni, (antologia narrativa di scrittori sull'Abruzzo), 1997, Da Tyresia a Odysseus (L’itinerario poetico di Dante Marianacci), 1997, Saramago: un Nobel per il Portogallo (con Igino Creati), 1999. Suoi testi sono stati tradotti in francese e in inglese. Ha curato la regia del video I poeti, le città, il primo video girato in Abruzzo che mette a confronto un poeta con la propria città. Ha curato monografie d’arte, scritto migliaia di recensioni e di segnalazioni di libri, film, rappresentazioni teatrali, mostre d’arte e avvenimenti culturali su riviste nazionali (Tam TamDismisuraIl cavallo di TroiaInversoHortusOggi e domaniPunto d’incontroAbruzzo letterarioTracceIl messaggeroIl tempo, ecc.) e internazionali (Don Quichotte, Spagna, 2 plus 2, Francia). Ha diretto la casa editrice Noubs di Chieti, ha diretto la Rivista Internazionale Pandere, dirige una collana per l'Editore Ricerche & Redazioni. Ha promosso e organizzato la Corriera della Poesia, finalista al premio Telecom Bellezza, premiata da Umberto Eco a Milano. Organizza il premio Lettera d’amore a Torrevecchia Teatina. Ha ideato “Casa d’Autore” a Capestrano (Aquila), casa museo dove sono in mostra foto, testi, dipinti d’autore, che vuole offrire uno spazio di serenità e di riflessione, un nido per il pensiero e il cuore: tutti gli artisti o gli scienziati che vorranno usufruirne, potranno farlo, ospitati gratuitamente in cambio di un dono (una poesia, un racconto, un dipinto, una pagina delle loro ricerche) che sarà poi conservato nella casa.


TEATRO DELLO SGUARDO

   (da LUCEVERSA, Noubs, 2009)



INQUINAMENTO LUMINOSO

Per quanta luce è al mondo
che tutto è stato visto
rivisto (déja vu),
filmato registrato,
riposto, ritoccato.
Retorica è l’immagine.
Non resta altro da fare
che togliersi le sclere
oppur darsi per ciechi
nella terra degli orbi.     
D’altronde noi mi sembra     
ci siamo presentati
veduti già squadrati      
pertanto perdonatemi
se vado nella camera
oscura in cerca d’ombre.



A poco prezzo in vita
comprai tutti gli sguardi.
Ne feci il mio commercio
vendendone per strada.
Esoso, li ho scambiati            
scontati, barattati                            
in me hanno sviluppato
il genio dell’usura.
Ora che per accumulo
lo sguardo mio possiedo
non c’è più niente al mondo  
da scorgere al di fuori      
del mio limite buio.




Tu prima che del tutto
appaian vuoti: attento.                    
(Di sguardi non s’abusa).
Perciò rifiata un poco
riprendi piano luce.
La sosta non vietarti.
Giacché hai guardato tanto
da farci stare il mondo.




MIRAGGIO A SEPPIA DELLO SGUARDO

Non conosciamo il numero
che inchiodano di sguardi    
il mondo alla sua forma.
Costante è il nostro debito
con ogni lume o torcia.
Si chiudono le palpebre
per pareggiare il conto.
Ancora ricordiamo
con tutto il nostro orgoglio
il luogo inaccessibile
raggiunto per vedere.
Ma quale ottuso smacco
se proprio quello fu
lo spazio in cui si rese
per sempre manifesta
la nostra miopia.




A CENA, NEL TEATRO DELLE OMBRE

La mano versa l’acqua
nella misura giusta.
Fa scintillar la coppa
l’idea che rende certa
l’ipotesi che io sia
l’utensile che filtra  
luce di goccia in goccia.




L’oggetto che risplende
è impresso nella mano
nel vetro attraversato
dal rigo traboccato.
Non torna più nel vaso
sguardo, sebben sigilli.              
Il gioco del vedere
è in questo trasondare
-per leggi ancora oscure-
dall’essere al suo dio,
nel qui e nell’ora istante.



Non nega il suo bersaglio
né l’arco che lo tende,
né appoggio che lo regge:
lo sguardo che rincuna
la luce nel suo specchio.
Se parte, nega il buio
da dove è stato tratto:
l’origine, lo scocco,
la spinta dell’occulto.






In che, sguardo si spiega?
È l’atto che lo compie
il luogo in cui trasonda.
La vista colma l’occhio
d’un empito perfetto
il mondo è apparizione
in forma d’occlusione.





Lo sguardo che si slancia
non resta mai nel vaso.
Nel bosco l’incendiario
dolenti scorge fiamme
così l’ombra purifica
l’anima sua carnefice.
Esplode il cacciatore
la rabbia che in sé cova:
perché la vita?, e mira:
l’ha presa, e già, precipita.




È l’uomo ciò che vede
o crede di vedere?                       
Per sete di potere
è sempre nelle mani                                                           
ostaggio dei fantasmi                                                                     
che pullulano agli occhi.                                                                                                   
Di luce crocifisso             
al palo dello sguardo.





Nell’unica certezza
d’essere per vedere,
è il senso del dovere,
a farla da padrone.
L’uomo non è che un sogno
a cui s’impone luce
suo compito è contendere
a quello che si cela
il buio che lo forma.






Lo sguardo è duello al mondo.
Contesa a fior di luce
che cuce punti e strappi
sui volti chiusi a pugno
da ladri di figure
per caso o per amore
poggiati su uno sfondo
di nera spazzatura.
Per la divina Maschera
che ingiunse al tempospazio
d’improvvisarsi specchio
lo sguardo è interiezione.





Il tavolo è imbandito.
Degli invitati a cena
oscillano i pensieri
al lume di candele.
Nella penombra i gesti
si forgiano e consumano
si scorticano lenti.
A malapena scorgo
di fronte i commensali.
Ciascuno sé rinchiude.
La mescita del vino
respingo, inopportuna.
La brocca d’acqua invece
si svela con franchezza,
spargendo efflorescenza
riflessi e lucentezze.
Tra i gesti e le stoviglie
s’accalca il buio, stinge 
siliconate labbra,
rifatti nasi e annulla
quel mento prominente,
di là una fluente chioma,
di qua una scollatura
audace latitanza.
Perfino le parole
son come illividite
sfuggite a una seduta
di spiriti. Lasciatemi,
vi prego, alla mia sobria
essenza d’ectoplasma.




Meccanico è poi l’atto
con cui versiamo l’acqua
nella misura giusta
di presso al commensale.
Governa la memoria
ogni atto nostro, e dire. 
Quante altre coppe abbiamo 
riempito esattamente.
Se continuiamo a bere
riusciremo a tener
alta la soglia autoptica.      



Lunghe ombre del passato
gettate sul presente.
È ciò che siamo. Spettri
il tempo allunga e imbratta
di cosmica fuliggine:
i corpi, di cui noi
dovremmo impadronirci
pur se a modesti sorsi,      
fin tanto da ubriacarcene
e diventarne il buio.
A questa soglia attenti
per poi carpirne luce:    
-riflesso il corpo o l’ombra?
O il corpo che si inombra?


No, non son io l’assente.
Dalle ombre, io, accecato.
Chi a sé m’ha richiamato 
a fiamme, a luce, al mondo?
Chi è che pure biffa
partecipa a smembrare
la frusta ombra che fui?
Mi reco nelle notti:
tra i segni del mio buio.








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