POETI ABRUZZESI CONTEMPORANEI
Benito
Sablone è nato a Pianella (Pescara), il 19 settembre 1935.
Ha esordito in
poesia nel 1956 con la raccolta “Sangue verde”.
In seguito
ha pubblicato: “Poesie” (Picchi, 1958), “Senso della terra” (Rebellato, 1960),
“Gioco della verità” (Solfanelli, 1966), “Epigrafi cristiane” (Rebellato,
1973), “La ragazza di Bratislava”
(Allegranti, 1977), “L’oro di Bisanzio”
(Bastogi, 1978), “La rosa alessandrina” (T. Terenzio, 1981), “La ruota
inchiodata” (Bastogi, 1981), “I sensi sconosciuti” (T. Terenzio, 1986),
“Ereticali” (Biblioteca Cominiana, 1989), “Fuochi” (All’antico mercato
saraceno, 1991), “A poco lume” (1993), “Poesie terrestri” (La Vallisa, 1993),
“Monologhi e silenzi” (Newton Compton, 1994), “Ogni giorno un muro” (Tracce,
1994), “L’attesa” (All’antico mercato saraceno, 1996), “Uomini, donne e santi
di paese” (Noubs, 2000), “L’angelo di Redon” (Tracce, 2004), “Che sia
d’autunno” (Libro italiano, 2004), “Ciò che non accade” (2006), “Mutamenti e
destini” (Edizioni Scientifiche Abruzzesi,2010), "Abitavo la luce" (Tabula Fati, 2016).
Ha dato alla
luce anche volumi di racconti: “Arcadia” (Solfanelli, 1992) e “La casa del
tempo” (Tabula Fati, 2013) e i lavori critici “Profili di contemporanei”
(Adriatica, 1957), “Inediti e varianti di Vincenzo Cardarelli” (Dimensioni, a.
X, n.5, 1996) e “Specchi ustori (Tracce, 1993).
E’ presente
nell’antologia, a cura di Enzo Bianchi, “Poesie di Dio” (Einaudi, 1999) e in
altre.
Per una
conoscenza più ampia del suo primo periodo, cfr. Vito Moretti, “Il simbolo, il
mito e la scrittura dell’utopia. Analisi della poesia di Benito Sablone, con
testimonianze critiche” (Edizioni dell’Ateneo, 1987).
Tra i molti
premi conseguiti, si ricordano, in particolare, Casa Hirta, Il Ceppo, Rhegium Julii, Matacotta, Città di Piombino,
Marineo, Sybaris-Magna Graecia, Calliope, Frascati, ecc.
***
da:
PROLOGO-MONOLOGO (in: “Epigrafi Cristiane", 1973)
Mi vedo
camminare sull’orlo d’un tetto, deciso.
Il comignolo
oscura le sillabe vuote
e le pietre
si nutrono di pioggia, assorbono
la luce
densa, rovinosa di luglio.
Crepitano i vetri.
In ogni
luogo – in questo luogo – salgono
i loro
patiboli gli uomini che vogliono incominciare
a vedere.
Troppo è il fuoco della danza isiaca
ed ogni
momento appartiene al fiore e alla spada.
Sono in
bilico, come qualunque altro,
sull’orlo
della storia tra gente senza storia
mentre il
tevere divide le sue acque fangose
sul dorso
dell’Isola Tiberina. Galleggiano
nell’aria
matrici spaziali, le cortecce
dei
navigatori che tentano di esplorare
il punto di
partenza delle cose, la nascita
dei morti
che vivono con noi.
Di tutto il possibile
io so con
certezza che gli dèi sono soltanto dèi.
Non oso
aggiungere altro. Troppo apocalittico
è l’arco
delle tenebre, la vicenda intrapresa
nella
primavera del giardino. Se provassi
a chiamare
qualcuno, potrei confondere
la tigre con
l’uomo: e nessuno griderebbe.
Eppure la
forza dell’amore è intatta,
vibra
attorno al frutto delle stagioni, muove il Sagittario,
spinge il
Carro nei cieli.
Noi
spingiamo
il sibilo
del piombo, l’abitudine al sangue,
il gioco
delle comete mortali, oscuriamo l’arcobaleno.
Sull’orlo
del tetto cresce l’erbario del passato come la peluria
sotto il
ventre del cinghiale. Eppure la mano rovista tanta saggezza,
anche se il
treno è partito chissà per dove, ormai dissolto
nel suo
stesso essere. Rimane la belva che annoda
il fuoco
delle voglie nella ricorrente vigilia delle mattanze.
Basterebbe
un passo, girare l’angolo dei secoli
per
modificare le curve dei pianeti. Sugli alberi e sulle colline
essi
galleggiano, calati nel buio voluminoso del silenzio,
mentre nei
nostri cortili la nebbia riposa a brandelli
sulle dita
fredde dei platani.
Per tutta la mia generazione
alzo la mano
al soffitto. “Se vi trovate a passare
nel mio
tempo senza scopo e senza ragione,
aprite la
porta dei venti che sbiancano il sole
e spingono
gli uccelli del nord ai pozzi della primavera.
La via che
sale e quella che scende
sono la
stessa cosa per chi la percorre. Così diceva
il greco
antico, Eraclito, che amava vivere dentro i perché.
***
da: MONOLOGO
DELLA METAFORA OSCURA (in: “Monologhi e
silenzi” 1973 - 1993)
I
Le giovani
signore giocano con le biglie
sui
pavimenti a scacchi,
si divertono
a ridere per niente
mostrano
denti pericolosi.
Fuori i
gatti furiosi per il vento
fanno
lamenti di bambini
da
sciogliere in lacrime,
mentre le
forme più strane
si muovono
lungo i muri.
La città non
è deserta,
non è
deserta la stanza,
i pallidi
merletti viola
si muovono
come farfalle intorno al tavolo
- i fiori
secchi scricchiolano
perché un
uomo col mantello è entrato
muovendo
l’aria.
Anche i
quadri dal muro si sollevano
mentre le
signore
chine al
loro gioco
si fermano a
guardare se sono in ordine,
se la
cattedrale del trucco
ha resistito
a tanti movimenti.
***
Poesie
scelte da “L’Angelo di Redon” (1989 – 1996)
Ed. Tracce 2001
*
Se la
pioggia torna
e la foglia
e la neve
e se torna
la domanda
gorgo
azzurro di voce
dietro il
vetro e lo smeriglio
che sfoca il
cerchio
in luce
diffusa –
se
l’angoscia compatta
disegnata
nel gelo
meraviglia
del calcolo supremo
torna
Da dove?
*
Per lavarti
i piedi
non saprei
con quali aromi
entrare in
confidenza
Tu concedi
per carnali
segni
la sapienza
- ma nei cieli
tra le
luminarie
ti nascondi
insieme agli
altri dèi
*
Anna ti
prego non pulire
i vetri
lascia la polvere
sui cocci
non asciugare i piatti
non chiudere
le ore
nel cassetto
Tutto è così
perfetto
nell’universo
che l’ordine
non c’è
*
All’apologia
del dire e del fare
preferisco
l’immobilità
lo sguardo
sugli eventi
la distanza
Decifrare
lontano dalle cose
stando nel
confine della ragione
nella fertilità
delle prove
disperate