martedì 15 marzo 2016

Vito Moretti



Vito Moretti vive tra San Vito Chetino, dove è nato, e Chieti, dove risiede; è docente universitario, scrittore e poeta in lingua e in dialetto. Ha esordito meno che ventenne e ha tenuto incontri culturali e letture di poesie in Russia, in Francia, in Irlanda, in Turchia, negli Stati Uniti e in altre località, sia in Europa che in Italia.
Dopo alcune “plaquettes” (riproposte nel vol. Una terra e l’altra. Ristampe e inediti. 1968-1979, a cura di Massimo Pamio, Pescara, Tracce, 1995), ha pubblicato N’andìca degnetà de fije (ediz. premio, Catanzaro, 1984), La vulundà e li jurne (Roma, Ediz. dell’Ateneo, 1986), Temporalità e altre congetture (Bologna, Cappelli, 1988), Déndre a na storie (Firenze, Editoriale Sette, 1988), Il finito presente (Roma, All’Insegna de «L’Occhiale», 1989), Le prerogative anteriori (Udine, Campanotto, 1992), Da parola a parola (Bari, Laterza, 1994), ’Nanze a la sorte (Venezia, Marsilio, 1999), Di ogni cosa detta (Pescara, Tracce, 2007), L’altrove dei sensi (Lanciano, Carabba, 2007), Con le mani di ieri (ivi, 2009), Luoghi (Chieti, Tabula Fati, 2011), La case che nen ze chiude (ivi, 2013), Dal portico dell’angelo (Pescara, Tracce, 2014),  Principia (Chieti, Tabula Fati, 2015), Le cose (Tabula Fati, 2017).
Ha pubblicato anche tre vol. di narrativa: Nel cerchio della tartaruga. Prose, incontri e qualche storia (Chieti, Métis, 1996), La polvere sul cucù (Chieti, Tabula Fati, 2012) e Il colore dei margini (ivi, 2014) e un romanzo, Le ombre adorne (ivi, 2016).
I suoi interventi teorici compaiono in V. Moretti, Le ragioni di una scrittura. Dialoghi sul dialetto e sulla poesia contemporanea (a cura di Enrico Di Carlo, Pescara, D’Incecco, 1989).
Nel campo della saggistica, Moretti ha pubblicato numerosi studi sulla cultura dal Settecento al Novecento, con particolare riguardo alle aree del verismo e del decadentismo e a Gabriele d’Annunzio, di cui ha reso noto carteggi e scritti inediti; ha promosso numerosi convegni e seminari sulla letteratura abruzzese e nazionale, con la stampa dei relativi Atti, e ha curato l’edizione critica o la riproposta in volume di opere di vari autori.
Moretti, infine, è responsabile di alcune collane editoriali, sia per la scrittura saggistica che per quella creativa.
Per la sua attività di poeta ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti (fra cui l’«Acciaiuoli», il «Versilia-Marina di Carrara», il «Tagliacozzo», il «Bari-Magna Graecia», il «Premio Alghero», il «Pisa-Calamaio di Neri», il «Montesilvano», il «Pescara», lo «Scanno», il «Pontremoli») e lavori monografici redatti da Massimo Pamio (Il filo lungo della parola. Contributi per una lettura di Vito Moretti, Chieti, Vecchio Faggio, 1991), da Vittoriano Esposito (Segni di scrittura. Aspetti e temi della poesia di Vito Moretti, Roma, Bulzoni, 1994), da Dante Cerilli (L’enigma e la forma. Introduzione alla poesia di Vito Moretti, Bari, Laterza, 1995), da Toni Iermano (Nelle più care dispute. Vito Moretti e i suoi trent’anni con la poesia, Roma, Bulzoni, 1998).
La sua bibliografia completa compare in Studi offerti a Vito Moretti, a cura di Gianni Oliva, Lanciano, Carabba, 2012, pp. 269-293.



La mia terra è questi segni


La mia terra è questi segni
di costola, queste vicende stipate
alla lenta cronaca della pietra
e del mare, è questo consumo di sandali
sul greto in cui sostarono monaci e gabbiani
e stanchi pellegrini di ritorno
alla cenere del focolare.
Ma tu, Signore, fa che io
resti a lungo qui
– ascolti o non ascolti la stretta
della casa vuota, vada
o non vada oltre la meridiana
che altri hanno posto per l’ora
dei vivi e dei morti –. Ignoro cosa
mi darà il cielo di settembre
o la stagione che giunge col sonno
degli abeti e dei mandorli, ma ne intendo
uno per uno i fremiti, so,
conosco osso per osso e in ogni vena
questa mia terra, o Signore, che ha
il tuo volto prodigioso
sul telo dei monaci e il tuo calvario
nella carne degli uomini, in me
che serbo storie e cicatrici.
Eppure non chiedo un’altra giovinezza
né un cielo estraneo al broncio
e all’ansia. Io recito la tua voce
nel corpo che invecchia, mia terra,
il tuo esistere nel filo pigro
delle mie parole, il tuo trascorrere
e il tuo restare mentre già ti allontani
di nuovo e ti fai punto
di paesaggio, forma di altri resti
e nomi, nomi da ricordare.


Oggi per ore ho lavorato


Oggi per ore ho lavorato
accanto a due mucchi
di parole, uno
di buone e mansuete, l’altro
di burrasca. Ho costruito
altalene, tetti
appena sopra la testa,
un letto con matite
colorate, la candela
e i recinti per l’inverno.
Ho faticato a sistemare
la porta e il cancello,
i quattro piedi del tavolo
e i legni per la settimana ventura.
Potrei ora dire che vale la pena
di starci, coricato con un boccale
di vino, a sfogliare libri dal mucchio
o a ripensare storie, al pesciolino
rosso, ai versi da mandare
al macero, ai poeti accalappiatori
di targhe e battimani. Qui
si fa vita di provincia, si scrive
e si legge, e si resta un po’
dimessi, un po’ cafoni,
ma liberi di dire
ciò che si pensa
e fermi ad ascoltare
anche i fantasmi, il tenero
che viene all’intorno
e che rallegra.


Massére lu fredde


Massére lu fredde
s’accénne e da bballe
v’è fitte na nèbbie che sajje
e se spanne. Lu mare
se fa cchiù lundane
e lu vènde mo pare ca dice
nu nome, na voce: è quelle
de n’angele, è quelle
de mamme. E apprèsse
nu cande liggire liggire,
nu fiate
pe famme sta bbone,
na mane 
            pe famme addurmì.




Sulla distesa già piove


Sulla distesa già piove
e il vento stipa foglie
e peccati nell’androne dei capricci  
e delle roche moldave. Viene freddo
sotto l’abito ancora estivo  
e tossisce la rossa  
che incartoccia bignè
per la sera. Più ardito,  
chiama due volte il grasso
camionista, perlustra
con la mano a visiera  
il buio del cortile, fa cenno,  
riprova, col vetro tirato giù,
e una pigra sagoma  
punta verso i fari, patteggia  
la virtù cruda  
della sosta, la pausa  
nel suono liquido del traffico. E la mente  
in quei passi di comparsa  
mi scioglie l’eco
d’una canzone, Nanì, di Pierdavide
Carone, lo schianto d’una falena  
che non sa in che poco lume  
            lei si bruci.


So jttàte la chiave


So jttàte la chiave
pe cresce, so scagnate le carte
pe corre, so ĵte raménghe
pe terre e recurde, e dapù
a nu passe me so vuta fermà,
e nu passe che sèmbre aremane
e che arréte te porte,
arréte ti vusse.


Tu sei lì che dormi


Tu sei lì che dormi,
ignara,
mentre io osservo
il tuo viso. L’alba è simile
alla tua bocca di pane
e il buono del mattino
è uguale al sorriso
del tuo risveglio, al tocco
delle tue mani che passano
sulle mie. Mi faccio tuo cuore,
parola che tu soltanto possa
udire, respiro che dal mio petto
colmi il tuo e ti conservi.








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