lunedì 18 marzo 2019

"MANE" di Rolando D'Alonzo letto da Marcello Marciani



MANE

Rolando D’Alonzo

Tabula Fati, Chieti 2018


   Quest’ultimo testo di Rolando D’Alonzo costituisce il terzo tempo di una ideale trilogia iniziata con Mitologia minore, opera pubblicata nel 2014, e proseguita con Lune, nel 2016. Pertanto, ad un intervallo biennale fra libro e libro, D’Alonzo approfondisce il suo percorso in versi fra le spirali della Storia e della Memoria, sia individuali che collettive, cogliendo di esse le continuità e le differenze rispetto ad un presente privo di riferimenti certi, lacerato e immemore. Ma la stessa concezione di “presente” in questo libro è superata, perché l’autore guarda alle vicende contemporanee con uno sguardo non certo limitato al dato fattuale, cronachistico, ma secondo una visione trasversale in cui presente e passato, echi e vestigia della cultura classica, rimandi alla grande poesia occidentale del secolo scorso e lessici mutuati dall’odierna comunicazione massmediale ed elettronica convivono disinvoltamente. Assorbendo infatti la lezione di alcuni maestri della poesia del novecento, come Pound ed Eliot, Rolando sa che il passato si vivifica e rinnova nel presente e viceversa il presente trasporta i vessilli millenari di epoche passate, anche quando sembra celarli. Le Gorgoni rinascono così nelle stragi di Kabul e di Gaza, le figure muliebri colte fra creme al retinolo e asfalti di periferie hanno i nomi di Tecla, Milesia, Cleobule. Tutto al tempo stesso è “contemporaneo” e “arcaico” in una compresenza spiazzante, in una narrazione prosodica che eleva a livelli di alta affabulazione linguistica, in un’aura mitica, l’esperienza del pensiero. Perché un dato è certo: questa scrittura nasce da un continuo, incessante pensiero, che permette di compattare insieme occasioni private e tragedie della Storia, slanci amorosi e invettive civili. È il pensiero a far sì che l’io poetante non si identifichi con l’ego del poeta, nemmeno quando ne svela le inquietudini e le fragilità, ma lo faccia vibrare in una voce corale da aedo, che riesce ad unire i vari registri dell’opera, sia il lirico che l’epico, sia il sublime che il beffardo. Afferma Francesco Paolo Memmo a proposito dell’opera di Ferdinando Falco, un grande poeta sperimentale sconosciuto al grosso pubblico e scomparso due anni fa: “La poesia (per Falco: ndr) non è espressione lirica dei sentimenti (la formula crociana studiata a scuola), non è esibizione di sé, non è contemplazione del proprio ombelico. La poesia è pensiero. Pensiero che si fa forma. Pensiero poetante. Pensiero che si nutre di tutto ciò che tocca, della nostra storia e di quella degli altri, delle radici che abbiamo coltivato, della cultura che ci ha formato, delle persone che abbiamo incontrato. Perciò la poesia può essere una cosa e un’altra: perché tutto alimenta il pensiero. Si procede non per sottrazione ma per accumulo. E anche il superfluo è necessario. Il caso irrompe nel disegno. Ed è inarrestabile il pensiero, nessuna gabbia può imprigionarlo" (*). Analisi questa del tutto applicabile all’opera di D’Alonzo, che non scaturisce da un impeto irrazionale ma da una incessante elaborazione speculativa, che tuttavia non si arena in algidi concetti ma si converte in suono, ritmo, parola che si dipana senza intrappolarsi in prefissate gabbie metriche ma seguendo un suo personalissimo andamento fluviale, poematico, che agilmente passa dalle terzine ai distici sfalsati, da stralci di esametri a sparsi endecasillabi e dodecasillabi per esprimere le sfaccettature e le vivaci divergenze di un pensiero che ogni campo del reale e dell’immaginario sostiene e trascina. A proposito si possono citare come esemplari due passi:

“In pensieri di vento se ne vanno in viaggio
gli alberi e mai abbandonano la soglia terrena (…)”

“Pensano le case nelle notti estive,
vuote conchiglie di opere addensate,
pensano in un procedere di tremiti

e vive scale, pensano nel cigolio di porte
alla divisione delle stanze, alle ramaglie
che serrano le nuvole all’ansito
delle forre (…)”

   Ecco quindi che gli alberi, le case, pensano, in una sorta di animismo alimentato da una forza interiore che dovunque si espande. Ma non si creda con questo che ci si trovi dentro una poesia tutta cerebrale, intellettualistica, perché il pensiero è un’energia totale, che attraversa mente e corpo, entra anche nei sentimenti e nei sensi, fa sue le gioie e le ansie dell’amore, esplorato soprattutto nelle sezioni intitolate a nomi latini di donne, che hanno lo scopo di decantare lessicalmente il tema amoroso, di distanziarlo in un’aura classica eppure straniata, inquieta e inquietante, come accade in certi componimenti che sono incantate epifanie, fuori dal tempo e dallo spazio quotidiani eppure attraversate da tempi e spazi di più epoche intrecciate:

“Una porta tu sei che nella casa
tra oggi separa e l’altro ieri
tra questi passi che gli uomini

in me segreti lasciano su lane
e basole, senza rumore senza
distanze da coprire senza via

e le altre sconfinate rive le altre
porte da inventare di sera
in sera in riva a ogni mare.

Una porta tu sei che sempre
aperta alle dita in fiore cede
alle lucciole dei giorni brevi
(…)

   Il lirismo intenso e acceso di questi versi, e di molti altri delle prime sezioni,  dedicate alla luna e alla figura femminile, contrasta col timbro acre e caustico, da furiosa invettiva civile, di altri, dove si scatena tutto il sarcasmo e la rabbia dell’autore verso un mondo che non conosce altro valore, o meglio disvalore, se non quello del profitto e del tornaconto, anche a costo del cinismo più cruento ed efferato. Un vero manifesto in tal senso è il componimento La tavola: lungo 179 versi, occupa tutta la penultima sezione del libro come un poemetto a sé stante, eppure inserito in piena armonia nella struttura poematica delle altre parti dell’opera. Qui la reiterazione ossessiva del termine o.k. si fa suono cupo di un tamburo tribale, di un occidente divenuto giungla d’interessi globalizzati, “venuti fuori per errore da una cassa/ proibita”. I rimandi precisi all’attualità, alle storture, alle torture e agli eccidi della Storia recente, vengono comunque inseriti in un discorso di accorata pietas umana, con uno struggimento che pervade e lacera i versi finali:

Poi disponiamo le nostre piccole morti
disparati alla meno peggio, esequie
comprese, ai cantoni dei caseggiati

profili arrugginiti nell’ombra dei muri
in giri smunti che il sole in un gomito
dividono in altri successivi mondi

mattini notti a piedi da inventare
disperati fino all’ultimo respiro
fino al trasalire in mezzo al vetro

dell’ultima azzardata stella, noi
riflessi da una polvere di strada,
paglia che mai più si infoca.

   Pertanto in quest’opera coesistono la lirica e l’epica, lo slancio amoroso e l’invettiva, la rivisitazione di lessici e moduli classici e l’addentrarsi negli slang e nei tic verbali odierni, l’armonia delle terzine e lo spezzettarsi della prosodia in forme metriche eccentriche: sembrerebbe un insieme incoerente e caotico e invece ogni aspetto tematico e formale s’incontra e torna nella dinamica di un “pensiero poetante” che sa orchestrare temi e stilemi diversi fra loro con il vigore addensante, imprevedibile e a suo modo miracoloso, della parola. Perché quel Mane del titolo, quel primo mattino in cui, secondo una dichiarazione dell’autore, la mente è ancora intrisa dei sopori e dei fantasmi della notte eppure si apre allo stupore di un nuovo risveglio, è pure il momento in cui il pensiero comincia ad articolarsi in parola, a scandirsi ancora una volta nelle più varie e contrastanti sillabazioni del dire.


Marcello Marciani



(*) dalla Prefazione di Francesco Paolo Memmo a Della morte del caso del superfluo e altre poesie dattiloscitte, di Ferdinando Falco, Edizioni Cofine, Roma 2018

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