MANE
Rolando D’Alonzo
Tabula Fati, Chieti 2018
Quest’ultimo
testo di Rolando D’Alonzo costituisce il terzo tempo di una ideale trilogia
iniziata con Mitologia minore, opera
pubblicata nel 2014, e proseguita con Lune,
nel 2016. Pertanto, ad un intervallo biennale fra libro e libro, D’Alonzo
approfondisce il suo percorso in versi fra le spirali della Storia e della
Memoria, sia individuali che collettive, cogliendo di esse le continuità e le
differenze rispetto ad un presente privo di riferimenti certi, lacerato e
immemore. Ma la stessa concezione di “presente” in questo libro è superata,
perché l’autore guarda alle vicende contemporanee con uno sguardo non certo
limitato al dato fattuale, cronachistico, ma secondo una visione trasversale in
cui presente e passato, echi e vestigia della cultura classica, rimandi alla
grande poesia occidentale del secolo scorso e lessici mutuati dall’odierna
comunicazione massmediale ed elettronica convivono disinvoltamente. Assorbendo
infatti la lezione di alcuni maestri della poesia del novecento, come Pound ed
Eliot, Rolando sa che il passato si vivifica e rinnova nel presente e viceversa
il presente trasporta i vessilli millenari di epoche passate, anche quando
sembra celarli. Le Gorgoni rinascono così nelle stragi di Kabul e di Gaza, le figure
muliebri colte fra creme al retinolo e asfalti di periferie hanno i nomi di
Tecla, Milesia, Cleobule. Tutto al tempo stesso è “contemporaneo” e “arcaico” in
una compresenza spiazzante, in una narrazione prosodica che eleva a livelli di
alta affabulazione linguistica, in un’aura mitica, l’esperienza del pensiero.
Perché un dato è certo: questa scrittura nasce da un continuo, incessante pensiero,
che permette di compattare insieme occasioni private e tragedie della Storia,
slanci amorosi e invettive civili. È il pensiero a far sì che l’io poetante non
si identifichi con l’ego del poeta, nemmeno quando ne svela le inquietudini e
le fragilità, ma lo faccia vibrare in una voce corale da aedo, che riesce ad
unire i vari registri dell’opera, sia il lirico che l’epico, sia il sublime che
il beffardo. Afferma Francesco Paolo Memmo a proposito dell’opera di Ferdinando
Falco, un grande poeta sperimentale sconosciuto al grosso pubblico e scomparso
due anni fa: “La poesia (per Falco: ndr)
non è espressione lirica dei sentimenti (la formula crociana studiata a
scuola), non è esibizione di sé, non è contemplazione del proprio ombelico. La
poesia è pensiero. Pensiero che si fa forma. Pensiero poetante. Pensiero che si
nutre di tutto ciò che tocca, della nostra storia e di quella degli altri,
delle radici che abbiamo coltivato, della cultura che ci ha formato, delle
persone che abbiamo incontrato. Perciò la poesia può essere una cosa e
un’altra: perché tutto alimenta il pensiero. Si procede non per sottrazione ma
per accumulo. E anche il superfluo è necessario. Il caso irrompe nel disegno.
Ed è inarrestabile il pensiero, nessuna gabbia può imprigionarlo" (*).
Analisi questa del tutto applicabile all’opera di D’Alonzo, che non scaturisce
da un impeto irrazionale ma da una incessante elaborazione speculativa, che
tuttavia non si arena in algidi concetti ma si converte in suono, ritmo, parola
che si dipana senza intrappolarsi in prefissate gabbie metriche ma seguendo un
suo personalissimo andamento fluviale, poematico, che agilmente passa dalle
terzine ai distici sfalsati, da stralci di esametri a sparsi endecasillabi e
dodecasillabi per esprimere le sfaccettature e le vivaci divergenze di un
pensiero che ogni campo del reale e dell’immaginario sostiene e trascina. A
proposito si possono citare come esemplari due passi:
“In pensieri di vento se
ne vanno in viaggio
gli alberi e mai
abbandonano la soglia terrena (…)”
“Pensano le case nelle
notti estive,
vuote conchiglie di opere
addensate,
pensano in un procedere
di tremiti
e vive scale, pensano nel
cigolio di porte
alla divisione delle
stanze, alle ramaglie
che serrano le nuvole
all’ansito
delle forre (…)”
Ecco quindi che gli alberi, le case, pensano, in una sorta di animismo alimentato
da una forza interiore che dovunque si espande. Ma non si creda con questo che
ci si trovi dentro una poesia tutta cerebrale, intellettualistica, perché il
pensiero è un’energia totale, che attraversa mente e corpo, entra anche nei
sentimenti e nei sensi, fa sue le gioie e le ansie dell’amore, esplorato
soprattutto nelle sezioni intitolate a nomi latini di donne, che hanno lo scopo
di decantare lessicalmente il tema amoroso, di distanziarlo in un’aura classica
eppure straniata, inquieta e inquietante, come accade in certi componimenti che
sono incantate epifanie, fuori dal tempo e dallo spazio quotidiani eppure
attraversate da tempi e spazi di più epoche intrecciate:
“Una porta tu sei che
nella casa
tra oggi separa e l’altro
ieri
tra questi passi che gli
uomini
in me segreti lasciano su
lane
e basole, senza rumore
senza
distanze da coprire senza
via
e le altre sconfinate
rive le altre
porte da inventare di
sera
in sera in riva a ogni
mare.
Una porta tu sei che
sempre
aperta alle dita in fiore
cede
alle lucciole dei giorni
brevi
(…)
Il lirismo intenso e acceso di questi versi,
e di molti altri delle prime sezioni, dedicate
alla luna e alla figura femminile, contrasta col timbro acre e caustico, da
furiosa invettiva civile, di altri, dove si scatena tutto il sarcasmo e la
rabbia dell’autore verso un mondo che non conosce altro valore, o meglio
disvalore, se non quello del profitto e del tornaconto, anche a costo del
cinismo più cruento ed efferato. Un vero manifesto in tal senso è il componimento
La tavola: lungo 179 versi, occupa
tutta la penultima sezione del libro come un poemetto a sé stante, eppure
inserito in piena armonia nella struttura poematica delle altre parti
dell’opera. Qui la reiterazione ossessiva del termine o.k. si fa suono cupo di un tamburo tribale, di un occidente
divenuto giungla d’interessi globalizzati, “venuti fuori per errore da una
cassa/ proibita”. I rimandi precisi all’attualità, alle storture, alle torture
e agli eccidi della Storia recente, vengono comunque inseriti in un discorso di
accorata pietas umana, con uno
struggimento che pervade e lacera i versi finali:
Poi disponiamo le nostre
piccole morti
disparati alla meno
peggio, esequie
comprese, ai cantoni dei
caseggiati
profili arrugginiti
nell’ombra dei muri
in giri smunti che il
sole in un gomito
dividono in altri
successivi mondi
mattini notti a piedi da
inventare
disperati fino all’ultimo
respiro
fino al trasalire in
mezzo al vetro
dell’ultima azzardata
stella, noi
riflessi da una polvere
di strada,
paglia che mai più si
infoca.
Pertanto in quest’opera coesistono la lirica e l’epica, lo slancio
amoroso e l’invettiva, la rivisitazione di lessici e moduli classici e l’addentrarsi
negli slang e nei tic verbali odierni, l’armonia delle terzine e lo
spezzettarsi della prosodia in forme metriche eccentriche: sembrerebbe un
insieme incoerente e caotico e invece ogni aspetto tematico e formale s’incontra
e torna nella dinamica di un “pensiero poetante” che sa orchestrare temi e stilemi diversi fra loro con il vigore
addensante, imprevedibile e a suo modo miracoloso, della parola. Perché quel Mane del titolo, quel primo mattino in
cui, secondo una dichiarazione dell’autore, la mente è ancora intrisa dei
sopori e dei fantasmi della notte eppure si apre allo stupore di un nuovo
risveglio, è pure il momento in cui il pensiero comincia ad articolarsi in
parola, a scandirsi ancora una volta nelle più varie e contrastanti
sillabazioni del dire.
Marcello
Marciani
(*) dalla Prefazione di Francesco Paolo Memmo a Della morte del caso del superfluo e altre
poesie dattiloscitte, di Ferdinando Falco, Edizioni Cofine, Roma 2018
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