VITE DI SGUINCIO
di Remo Rapino
Ed.Carabba, Lanciano
2017
In questo
libro convergono molti temi e stilemi che hanno caratterizzato il mondo poetico
dell'autore in un buon quarto di secolo di intensa attività letteraria. In esso
troviamo infatti l'interrogarsi sul senso dell'esistenza e della Storia; la
ricerca di un possibile, o anche impossibile, Altrove; il rischio della sfida;
il valore fondamentale dato alla Parola e, con essa, alla narrazione, che tramuta l’analisi di
nuclei individuali in storie di gesta, in miti e saghe; la coesistenza del
registro epico e di quello lirico; l'andamento fluente, orale, di molti
racconti, e il timbro stringato e asciutto di altri: insomma questo lavoro è
una sorta di ventaglio aperto sui vari aspetti, tematici e formali, dell'intera
opera di Remo Rapino.
Ed è un
ventaglio ricco di colori a contrasto, frusciante di suoni ed echi diversissimi
fra loro, impregnato di vari umori e profumi, perché in ogni sua stecca e
striscia c'è una porzione di mondo, visitato sotto l’aspetto geografico,
indagato nelle epoche e nelle ragioni
storiche, espresso nelle lingue e nelle parlate d’appartenenza. Si passa
così dall’Abruzzo scabro e deserto di Rocca Calascio a quello collinare,
prossimo al mare, di una probabile, appena allusa, Lanciano; dalla Sicilia
delle zolfatare di inizio novecento alla Sardegna ottocentesca dei primi moti
d’autonomia; dalla tragica Fuente Grande di Garcia Lorca alla Rio de Janeiro delle
miserie e delle rivalse degli anni sessanta; dalla Stalingrado stretta sotto
l’assedio bellico del '43 alla Sarajevo fratricida degli anni novanta, fino al
Cile degli anni settanta, fra l’Unità Popolare di Allende e il Colpo di Stato
di Pinochet. E, fra le le pieghe dei vari racconti, si inseriscono rimandi alle
tante migrazioni dal nostro paese alle Americhe, memorie sulle due guerre
mondiali, insieme a citazioni di poesie e canzoni popolari che rendono il
fascino e la malìa d’antàn delle varie ere. In
questa volontà di addentrarsi fra paesi e periodi storici così diversi fra loro
c’è non solo la curiosità antropologica dell’autore, che registra con estrema
precisione documentale e lessicale vicende e parlate, ma la necessità di
portare avanti un’indagine conoscitiva alta, a tutto campo, onnicompensiva, sul
ruolo della Letteratura oggi.
In anni
recenti siamo stati invasi da opere narrative minimaliste, centrate su storie
private, o meglio privatiste, dove l’intimismo più egocentrico viene espresso
in una prosa asettica, articolata in frasi e periodi brevi, con terminologia
ridotta e scarsa aggettivazione, modulata sui manuali standard delle scuole di
scrittura, spesso operanti anche online. È sorta in tal modo un'intera classe
di giovani autori uniformati su tali modelli, che sembrano nati dal nulla,
difficilmente distinguibili fra loro eppure supportati anche dall’editoria di
richiamo, che vede in questa semplificazione del linguaggio un notevole
riscontro di vendite. In tale ambito l’opera di Rapino, così invece
"massimalista" per contenuti e forme, potrebbe apparire
restauratrice, perché portatrice di valori antichi eppure inossidabili per chi
tiene ancora al ruolo conoscitivo, oserei dire salvifico, della Letteratura. E
il valore fondamentale è proprio nel senso che l’autore dà alla parola, e
nell’uso che ne fa. Ancor prima di essere il narratore fluente ed eclettico che
oggi leggiamo, Remo è un poeta. Egli esordisce nel 1993, con la raccolta di
versi Dissintonie, a cui ne seguono
altre per un buon decennio fino alla pubblicazione nel 2006 del romanzo Un cortile di parole, vincitore del Premio Penne-Mosca. E da poeta, il nostro
autore ha sempre saputo che è la parola che fa l’opera, non i sentimenti
provati né i fatti narrati. La parola che interpreta a modo suo la vita intera,
come nell’esergo di Garcìa Marquez posto in apertura al primo racconto di
questo volume: “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda
e come la si ricorda per raccontarla”. E l'esergo di Garcia Marquez è una sorta
di vessillo ideale sotto cui procede l'intera narrazione. In una pagina molto
indicativa al riguardo, si afferma che "non esistono fatti, esistono
soltanto le storie, modi infiniti per raccontarle e così cambiarle ancora, per
tentare di cambiare la Storia: questa, forse, la sola condivisibile
verità". E Cafiero della Torre, uno dei personaggi della sezione dei
sognatori, precisa in un altro passo che la vita va raccontata "senza
confini fra il falso ed il vero, i voli e le cadute, tutta la vita vissuta,
miraggi compresi, nella mente e nel fragile cuore". In questa concezione
risiede l'essenza dell'epos, che in greco sta per "parola" e, in
senso più ampio, "racconto", riferito e tramandato oralmente,
arricchito e trasfigurato dalla fantasia del narrante stesso. Per cui sia il
substrato storico che la dimensione politica dei testi, così come la perizia nella resa geografico-ambientale e
nella trascrizione delle varie parlate, pur notevoli di per sé, non avrebbero
un valore letterario autonomo se non fossero inglobate in quella sapiente
orchestrazione narrativa, e poetica insieme, che fa della parola, lavorata e
articolata nelle sue molteplici valenze sonore, emotive e gnoseologiche, l’asse
portante dell’intera opera. Può sembrare ovvio ribadire l'importanza della
parola, mezzo indispensabile senza il quale non esisterebbe scrittura alcuna,
ma in Rapino non c'è solo la piena consapevolezza del mezzo, ma il suo
delinearsi come tema fondamentale, metaletterario, ricorrente in tutti i brani
del libro, a volte addirittura visto come un fine. È ciò che accade in uno dei
testi più affascinanti dell'opera, La
terra è blu come un'arancia, che è il primo nucleo germinativo del romanzo Un cortile di parole. In esso il
personaggio di Aureliano, nome scelto per omaggiare il Garcia Marquez di Cent'anni di solitudine, da umile
manovale a giornata diventa il proprietario-depositario di una biblioteca di
30.000 volumi, raccolti in ogni dove con infinita pazienza e amore per la
lettura, perché egli è convinto che "le storie dei libri erano l'unica
possibilità di ri-creare il mondo da capo, meglio di una rivoluzione", e
ancora, citando un altro frammento: "la parola era il gesto più libero che
l'uomo avesse a disposizione per non subire soltanto, per vivere e far vivere
ogni possibile alternativa, un'avventura della mente e del cuore". La
parola quindi come conoscenza e rivalsa da un mondo ingiusto e meschino, come
estrema libertà e affermazione di sé. Molti personaggi infatti hanno la
necessità di narrarsi, finanche di parlarsi addosso, “come un vecchio cane da
guardia che parla e sparla alla luna”, in un movimento a spirale che, partendo
dal pensiero, investe l'intero corpo del narrante e, con esso, la terra
d'appartenenza, con le radici dei ricordi e la nebbia dei sogni. Questo
autoraccontarsi tuttavia non è uno sfogo solipsistico ma un modo per cercare un
senso alla propria esistenza, in rapporto sempre agli incontri fatti, ai lavori
intrapresi, alle amicizie, alle speranze e alle illusioni collettive, agli
amori vissuti o sognati. Si inseriscono in tal modo, nel film della memoria,
frequenti flashbaks attinenti alle vicende della famiglia, o del paese, o della
Storia generale in cui la piccola storia dell'individuo viene situata: il
racconto così si dilata, attraversato da svariate inserzioni di altri episodi e
avvenimenti, diventando un racconto di racconti, acquistando lo spessore e
l'ampiezza di un'epopea. Il narratore diventa pertanto un affabulatore, che
accavalla in bocca fonemi, termini e frasi per mantenere vivo il ricordo e
ritardare il momento della morte, come fa il vecchio nonno attorno al quale, al
calore del camino, i nipoti ascoltano incantati intrecci di trame confinanti
col mito. E quando tutto il percorso del personaggio principale, narrante o
narrato (a seconda se viene usata la prima o la terza persona), viene
scandagliato nei minimi dettagli, dalla nascita alla fine, la scrittura si
conferma copiosamente orale: ingloba nel discorso frammenti di proverbi, di
canzoni, di credenze tramandate, indugia in iterazioni e varianti, per
restituire il corso della vita che procede come un largo fiume, pur diramandosi
in innumerevoli rivoli. È questa una tecnica che ha origini antiche, dal
versificare degli aedi, dall'oratoria dei contastorie, e che si rinnova in epoca
moderna in molta narrativa latinoamericana, di cui Remo è caloroso cultore.
Essa permette all’autore di addentrarsi nella carne viva dei suoi personaggi,
di indagare sulle loro ragioni e pulsioni, di interrogarsi sul senso dei loro
percorsi, di restituirne lo sfinimento della solitudine, la felicità
dell'amore, l'agonia estenuante del trapasso. Le Vite di sguincio, ordinate nelle tre categorie differite dei balenghi, dei sognatori, e dei quasi eroi, sono
in realtà accomunate da un uguale tipo di approccio nei confronti del vivere,
che è quello dell'essere autentici, di affermare la propria natura senza
infingimenti, di sfidare le convenzioni e la sorte, di tentare l'avventura
dell'impossibile, di inseguire i propri sogni senza cedere agli opportunismi e ai
tatticismi sociali. Così Mengo, definito balengo perché è un vecchio testardo,
incollato in totale solitudine, per ben dodici anni, alla sua Roccacalascio, di
cui resta l’unico abitante, è anche un sognatore e un quasi eroe, che rivendica
il diritto di restare nella sua terra, di difenderla contro tutti gli ex
paesani che sono fuggiti verso massificate città. E Liborio, il muratore
rimasto afono e intronato a causa della morte di Togliatti, si strugge per la
sua balbuzie e sogna di recuperare la parola, perché sa che è il mezzo
elementare per affermare la propria autonomia comunicativa. Così Kurt ed Ante, protagonisti delle vicende più
crude e atroci dell'opera, attinenti a due momenti tragici della storia
europea, la battaglia di Stalingrado e l’assedio di Sarajevo, non sono soltanto
dei quasi eroi, ma dei totali balenghi e sognatori, che sfidano la morte e si immolano per una sonata al
pianoforte e una tanica piena d’acqua. Le pagine che raccontano il loro
sacrificio sono le uniche in cui viene abbandonato il timbro discorsivo e
fluviale, perché qui non c’è una vita intera da narrare ma i pochi minuti che
precedono e accompagnano l’esecuzione delle vittime, e la prosa diventa
asciuttissima, densa, affilata e ricca di sottotesti come la più tagliente e
dolente delle poesie, a dimostrazione della sorprendente capacità di Rapino nel
saper adottare stili di scrittura diversi a seconda della differenti storie trattate.
Ciò che
accomuna queste figure è in definitiva la loro spiazzante spiritualità, la loro
commovente, a volte folle, umanità. Quella che fa dire ad Aureliano che “non
amare gli uomini, tutti gli uomini, era come essere morti”, quella che
serpeggia e si intrufola nella difformità dei luoghi e delle epoche, nella
mappa cosmopolita compattata dalla fantasia e dall’abilità dell’autore, e che
gli fa concludere che, a dispetto delle contraddizioni e delle crudeltà della
Storia, la vita va vissuta, ascoltata “quasi ogni vita fosse la nostra”,
ri-pensandola “come luogo di un universale destino, dolce ed amaro insieme,
perciò umano, perciò libero”.
Marcello Marciani
Lanciano, 3 maggio 2018
presentazione ex Casa di Conversazione di Lanciano, giovedì 3 maggio 2018
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