giovedì 13 ottobre 2016

Benito Sablone

POETI ABRUZZESI CONTEMPORANEI



Benito Sablone è nato a Pianella (Pescara), il 19 settembre 1935.
Ha esordito in poesia nel 1956 con la raccolta “Sangue verde”.
In seguito ha pubblicato: “Poesie” (Picchi, 1958), “Senso della terra” (Rebellato, 1960), “Gioco della verità” (Solfanelli, 1966), “Epigrafi cristiane” (Rebellato, 1973),  “La ragazza di Bratislava” (Allegranti, 1977),  “L’oro di Bisanzio” (Bastogi, 1978), “La rosa alessandrina” (T. Terenzio, 1981), “La ruota inchiodata” (Bastogi, 1981), “I sensi sconosciuti” (T. Terenzio, 1986), “Ereticali” (Biblioteca Cominiana, 1989), “Fuochi” (All’antico mercato saraceno, 1991), “A poco lume” (1993), “Poesie terrestri” (La Vallisa, 1993), “Monologhi e silenzi” (Newton Compton, 1994), “Ogni giorno un muro” (Tracce, 1994), “L’attesa” (All’antico mercato saraceno, 1996), “Uomini, donne e santi di paese” (Noubs, 2000), “L’angelo di Redon” (Tracce, 2004), “Che sia d’autunno” (Libro italiano, 2004), “Ciò che non accade” (2006), “Mutamenti e destini” (Edizioni Scientifiche Abruzzesi,2010), "Abitavo la luce" (Tabula Fati, 2016).
Ha dato alla luce anche volumi di racconti: “Arcadia” (Solfanelli, 1992) e “La casa del tempo” (Tabula Fati, 2013) e i lavori critici “Profili di contemporanei” (Adriatica, 1957), “Inediti e varianti di Vincenzo Cardarelli” (Dimensioni, a. X, n.5, 1996) e “Specchi ustori (Tracce, 1993).
E’ presente nell’antologia, a cura di Enzo Bianchi, “Poesie di Dio” (Einaudi, 1999) e in altre.
Per una conoscenza più ampia del suo primo periodo, cfr. Vito Moretti, “Il simbolo, il mito e la scrittura dell’utopia. Analisi della poesia di Benito Sablone, con testimonianze critiche” (Edizioni dell’Ateneo, 1987).
Tra i molti premi conseguiti, si ricordano, in particolare, Casa Hirta, Il Ceppo, Rhegium Julii, Matacotta, Città di Piombino, Marineo, Sybaris-Magna Graecia, Calliope, Frascati, ecc.


***


 da: PROLOGO-MONOLOGO (in: “Epigrafi Cristiane", 1973)


Mi vedo camminare sull’orlo d’un tetto, deciso.
Il comignolo oscura le sillabe vuote
e le pietre si nutrono di pioggia, assorbono
la luce densa, rovinosa di luglio.
                                                          Crepitano i vetri.
In ogni luogo – in questo luogo – salgono
i loro patiboli gli uomini che vogliono incominciare
a vedere. Troppo è il fuoco della danza isiaca
ed ogni momento appartiene al fiore e alla spada.

Sono in bilico, come qualunque altro,
sull’orlo della storia tra gente senza storia
mentre il tevere divide le sue acque fangose
sul dorso dell’Isola Tiberina. Galleggiano
nell’aria matrici spaziali, le cortecce
dei navigatori che tentano di esplorare
il punto di partenza delle cose, la nascita
dei morti che vivono con noi.
                                                     Di tutto il possibile
io so con certezza che gli dèi sono soltanto dèi.
Non oso aggiungere altro. Troppo apocalittico
è l’arco delle tenebre, la vicenda intrapresa
nella primavera del giardino. Se provassi
a chiamare qualcuno, potrei confondere
la tigre con l’uomo: e nessuno griderebbe.
Eppure la forza dell’amore è intatta,
vibra attorno al frutto delle stagioni, muove il Sagittario,
spinge il Carro nei cieli.
                                          Noi spingiamo
il sibilo del piombo, l’abitudine al sangue,
il gioco delle comete mortali, oscuriamo l’arcobaleno.
Sull’orlo del tetto cresce l’erbario del passato come la peluria
sotto il ventre del cinghiale. Eppure la mano rovista tanta saggezza,
anche se il treno è partito chissà per dove, ormai dissolto
nel suo stesso essere. Rimane la belva che annoda
il fuoco delle voglie nella ricorrente vigilia delle mattanze.
Basterebbe un passo, girare l’angolo dei secoli
per modificare le curve dei pianeti. Sugli alberi e sulle colline
essi galleggiano, calati nel buio voluminoso del silenzio,
mentre nei nostri cortili la nebbia riposa a brandelli
sulle dita fredde dei platani.
                                                   Per tutta la mia generazione
alzo la mano al soffitto. “Se vi trovate a passare
nel mio tempo senza scopo e senza ragione,
aprite la porta dei venti che sbiancano il sole
e spingono gli uccelli del nord ai pozzi della primavera.
La via che sale e quella che scende
sono la stessa cosa per chi la percorre. Così diceva
il greco antico, Eraclito, che amava vivere dentro i perché.


***


 da: MONOLOGO DELLA METAFORA OSCURA (in:  “Monologhi e silenzi” 1973 - 1993)


I

Le giovani signore giocano con le biglie
sui pavimenti a scacchi,
si divertono a ridere per niente
mostrano denti pericolosi.
Fuori i gatti furiosi per il vento
fanno lamenti di bambini
da sciogliere in lacrime,
mentre le forme più strane
si muovono lungo i muri.
La città non è deserta,
non è deserta la stanza,
i pallidi merletti viola
si muovono come farfalle intorno al tavolo
- i fiori secchi scricchiolano
perché un uomo col mantello è entrato
muovendo l’aria.
Anche i quadri dal muro si sollevano
mentre le signore
chine al loro gioco
si fermano a guardare se sono in ordine,
se la cattedrale del trucco
ha resistito a tanti movimenti.




***


Poesie scelte da “L’Angelo di Redon” (1989 – 1996)  Ed. Tracce 2001


*
Se la pioggia torna
e la foglia e la neve
e se torna la domanda
gorgo azzurro di voce
dietro il vetro e lo smeriglio
che sfoca il cerchio
                                   in luce
diffusa –
se l’angoscia compatta
disegnata nel gelo
meraviglia del calcolo supremo
torna
                 Da dove?


*
Per lavarti i piedi
non saprei
con quali aromi
entrare in confidenza
Tu concedi
per carnali segni
la sapienza
                    - ma nei cieli
tra le luminarie
ti nascondi
insieme agli altri dèi



*
Anna ti prego non pulire
i vetri lascia la polvere
sui cocci non asciugare i piatti
non chiudere le ore
nel cassetto
Tutto è così perfetto
nell’universo
che l’ordine non c’è



*
All’apologia del dire e del fare
preferisco l’immobilità
lo sguardo sugli eventi
la distanza
Decifrare lontano dalle cose
stando nel confine della ragione
nella fertilità
delle prove disperate

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